
A fine maggio, il pensiero dell’estate diventa inevitabile, quasi istintivo. Ed è per me un pensiero attraversato dalla sfolgorante bellezza del cielo terso e del sole ininterrotto sui prati, in collina e in montagna, in un tempo molto lontano. Il tempo di un’altra me stessa, forse persino di un’altra persona, perché l’esistenza è incessante fluire, trasformazione senza posa.
L’estate della memoria e del sogno a occhi aperti è l’estate della leggerezza, delle risate costanti, del disimpegno, dell’arrendersi alla vita come semplice adesione al trascorrere lento dei minuti, senza pretendere nient’altro che il presente, senza sapere nulla, ignorando ogni complicazione. L’estate che non c’è, l’estate che non può essere.
Ricordo giorni in cui i campi sembravano senza fine, e l’orizzonte aveva l’invisibile consistenza di una speranza fondata sull’irrazionale. La speranza di altri campi, altri cieli sereni, altri fiori. Più che una realtà, l’estate era allora una fantasia, immaginaria costruzione di una mente alla ricerca di cose, persone e significati.
Adesso sento il rumore dei tuoni: sta per arrivare un temporale, un temporale di tarda primavera. Si avverte un senso d’intimità, il desiderio di chiudersi in una stanza, di tacere, di ascoltare l’arrivo della pioggia. In attesa dell’estate che verrà.