Zamponi e cartoline

Ai miei tempi, a Modena esistevano alcune cartoline particolari, che mostravano il Duomo in bella vista e, accanto a esso, una poesia in dialetto e uno zampone cicciotto sullo sfondo. Sì, proprio lo zampone del suino, quello che tanti amano mangiare durante le feste natalizie e non solo.

Io detesto zamponi e cotechini, non ne sopporto il sapore e tutto quell’orrido grasso che cola appena se ne taglia qualche fetta; perciò non ne mangio mai neppure un grammo, e sulla mia tavola natalizia non compaiono neppure per sbaglio. Ma la vecchia cartolina in modenese-style, munita di zampetto di porco, non l’ho mai dimenticata: nella sua ingenua zoticaggine, con la sua aria rustica e pacchiana, resta un ricordo indelebile. E mi torna in mente che una mia compagna di liceo, come me ironica e amante degli scherzi, me ne inviò una a scopo ludico. Dal momento che vivevamo nella stessa città, fu una specie di uozzappa artigianale e casalingo in un momento in cui di uozzappa non vi erano neppure tracce. Ma questa è un’altra storia.

A parte ciò, sono l’unica a ricordare l’esistenza di cartoline un poco stravaganti?

(Quella dell’immagine è molto più vecchia della tipologia che ricordo io, ma è comunque significativa)

Sere di luglio

Me le ricordo tutte, quelle sere estive, le sere trascorse a parlare e a dire troppo, ciò che non si doveva; e poi il vento sui capelli e il non voler dormire – la notte, promessa di vita eterna. Me le ricordo tutte le sere sotto le stelle e le canzoni senza fine e i nostri scherzi – e il giorno dopo, e ricominciare.

Me le ricordo tutte, io, quelle sere, e so che torneranno, perché non è finita.

Ore 21:30

ore 21:50

Estate, marachelle e libertà

Era giugno, in Tuscia e al mare, e stavamo trascorrendo il mese in una bella villetta. Quell’anno eravamo in sette: io, mia madre, mio zio con la sua famiglia e i miei nonni. All’epoca – un’epoca non poi così remota – era normale  fare le vacanze in gruppi familiari allargati: ciò non era considerato né vergognoso né sinonimo d’immaturità.

Ricordo che, una sera, mentre tutti si trovavano a tavola assorbiti nelle loro chiacchiere, io e mio cugino, dopo esserci scambiati un’occhiata d’intesa, ci alzammo calmi e sereni e, con notevole disinvoltura e audace sprezzo del pericolo, trotterellammo serafici verso la porta di casa, che era aperta, e uscimmo tranquilli al buio per andarcene in spiaggia, cosa che, almeno in teoria, non avremmo dovuto fare.

In spiaggia, a quell’ora, non c’era nessuno. Restammo lì circa venti minuti, a giocare con la sabbia e ad ascoltare il rumore del mare. Poi rientrammo e ci accorgemmo che la nostra assenza non era stata notata. Così, ci sedemmo sul divano con i volti angelici e innocenti, ma intimamente soddisfatti di aver gabbato la nostra parentela.

Gabbare genitori e parenti era uno sport che amavamo molto, perché era un modo per renderci un po’ indipendenti e per provare qualche emozione – la gioia di farla franca con qualche minuscola marachella. Nella casa in appennino, dove trascorrevo il mese di agosto, io e mia cugina raggiungevamo la felicità suprema quando i nostri familiari, dopo pranzo, si sedevano in giardino intenti a chiacchierare e, le donne, a lavorare a maglia o all’uncinetto. Per me e per mia cugina era un sollazzo indescrivibile poter inforcare la Vespa a motore spento, e lanciarci in discesa oltrepassando il cancello senza che nessuno se ne accorgesse. Se ne accorgevano però al ritorno, quando il motore della Vespa era, per forza di cose, in piena funzione, e noi ci divertivamo come matte nel constatare quanto fosse facile eludere la sorveglianza degli adulti.

Certo, in se stessi sono episodi insignificanti, racconti da poco, che qualcuno definirebbe racconti di una piccola vita – sempre ammesso che ce ne sia una grande, di vita. Ma tralascio l’argomento per cristiana misericordia. Ciò che invece m’interessa, ossia il motivo per cui ho scritto questo post, è la malinconia che ogni tanto mi assale quando penso all’impossibilità di provare le medesime emozioni adesso, da adulta. Ormai, se voglio uscire di casa a qualsiasi ora, non ho bisogno di squagliarmela di nascosto provando un po’ di sana adrenalina nel farlo; ormai posso prendere la porta in qualsiasi momento e andare fuori, portando con me il solito fardello di pensieri.

Sembrano sciocchezze, ma, a pensarci bene, tali non sono. Qualche volta sarebbe bello tornare indietro almeno per un giorno, e rivivere quel magico senso di libertà e di onnipotenza destinato a non ripresentarsi mai più.

Estate sul blog


Il clima estivo, con il desiderio di vacanze e di spensieratezza che sempre vi si accompagna, contagia anche il blog. Ogni anno mi capita la stessa cosa, ogni anno si ripresenta la medesima sensazione: per quanto possa sembrare strano, persino questo spazio mi appare diverso, completamente catturato dalla luce e dalla maliziosa leggerezza dell’estate.

Il blog mi parla e mi chiede di abbandonare le riflessioni troppo impegnative, le profonde immersioni negli abissi più remoti dell’anima e i pensieri austeri. Questo è il momento del sorriso che si trasforma in sonora risata, questo è il momento degli scherzi e dei repentini sbalzi d’umore che sanno d’adolescenza e di capacità di sognare.

Il sole c’è nonostante tutto, nonostante ciò che consapevolmente si elude per non turbare e opprimere gli altri. L’estate vuole essere, qui e ora, un augurio per tutti: possa questa luce trasformarsi in un messaggio colmo di letizia; possa tanta inebriante vitalità cancellare le ombre più cupe.

Passioni scatenate (II)


Come ho scritto in un altro post, non amo le telenovelas e ne ho viste soltanto due non interamente, più una decina di puntate di Cuore selvaggio. In queste ho notato il ripetersi di uno stereotipo: la presenza della donna-infermiera.
L’eroina, una fanciulla sospirante, avvolta in pizzi e trine, ingenua, lacrimante, onesta e impegnata a struggersi per amore, non fa altro che ricamare, prendere il tè e chiacchierare con altre femmine. Poi, a un certo punto della vicenda, il maschio della situazione viene gravemente ferito e lei olè!, d’improvviso si trasforma in un’esperta infermiera.

Ad esempio, in Amor real Manuel, il protagonista, viene condotto a casa pieno di sangue dopo che un disgraziato l’ha impallinato a dovere sperando che morisse. A questo punto che accade? Quella lagna della moglie Matilde, che piange in ogni puntata per i motivi più disparati, comincia a prendere catinelle colme d’acqua e panni bianchi e, prima dell’arrivo del macell…, ehm, del medico, opera con abilità sulla profonda ferita di Manuel improvvisandosi infermiera provetta. Naturalmente piange per tutto il tempo, ma in questo caso le sue eccessive lacrime hanno almeno un senso viste le condizioni del consorte.

Ora, se immagino me stessa al posto di Matilde – io però non piango per ventiquattro ore di fila tutti i giorni dell’anno –  temo che il povero Manuel morirebbe dissanguato perché, oltre a non essere infermiera, non saprei neppure improvvisarmi tale. Questa mia inettitudine, però, ha un lato positivo: farebbe terminare la telenovela in tempi assai ragionevoli, accorciandola di circa due terzi del totale. Il classico caso, dunque, in cui una mancanza o difetto si rivela invece un pregio.
Al di là di ciò, resta vivo l’importante quesito: fra i sogni segreti di molti maschi, aleggia forse la figura della donna-infermiera?

Mogli e buoi dei paesi tuoi

calderoli
In questi giorni di caldo insopportabile, la Lega continua a operare alacremente per il bene dello Stato. Abbiamo appreso una notizia interessante:
Ora il Parlamento dovrà esaminare anche la proposta di legge del deputato Pierguido Vanalli dal titolo esemplificativo: “Introduzione dell’articolo 107-bis del codice civile per la celebrazione di matrimoni in lingua locale“. Fiori d’arancio in dialetto, perfetti per ribadire l’antico detto “moglie e buoi dei paesi tuoi”.

Ed ecco che proprio pochi minuti fa ci è giunta una telefonata da parte del poeta stilnovista Mario Borghezio, ansioso di comunicarci altri dettagli circa la riforma dei matrimoni. Mentre si udiva in sottofondo il raffinato Matteo Salvini ubriaco e intento a cantare un inno contro i meridionali tutti mafiosi, Borghezio ha detto di averci inviato una mail con allegata una bozza riguardante questo delicato tema.
Ora la trascriviamo fedelmente, lieti di condividerla con i lettori.

Bozza
Matrimoni. La possibilità di celebrare matrimoni in dialetto è soltanto il primo passo di una doverosa riforma della materia. Com’è ovvio, infatti, ogni riforma ha i suoi tempi e occorre operare in maniera progressiva ma costante.
Durante il primo stadio, ancora imperfetto, sarà obbligatorio coniugarsi soltanto fra padani: saranno banditi, quindi, i pericolosissimi e assurdi matrimoni misti (tipo, che so, un lombardo con una lucana, un veneto con una marchigiana, ecc.) a causa dei quali la civiltà padana rischia la rovina delle sue millenarie tradizioni, e la caduta verso forme di vita primitive e incivili.

Dopo questa fase, a mano a mano che la Padania finalmente si frantumerà in una miriade di meravigliosi localismi, i matrimoni dovranno avvenire esclusivamente su base regionale: un veneto dovrà sposare una veneta, un piemontese una piemontese e così via. I trasgressori saranno puniti mediante l’esilio definitivo in terre piene di zozzoni e di depravati, cioè la Francia e la Spagna, perdendo così il diritto di appartenenza alla civiltà padana.

Una volta consolidati i Comuni quali organismi indipendenti, ci si sposerà soltanto fra gente nata nella medesima città: un maschio di Pavia con una femmina di Pavia, un maschio di Bologna con una femmina di Bologna, e così via. Chiaro il concetto, no?

Nello stadio definitivo di questa riforma, che poi è l’apoteosi del tutto, i matrimoni avverranno fra persone nate nel medesimo condominio della medesima città: si tratta di un fausto ritorno alla famosa identità-di-cortile, che ci riporta ai tempi felicissimi della civiltà-delle-aie, quando ci si frequentava solo tra persone che vivevano nei pressi del medesimo pollaio, parlando con gioia il dialetto e rifiutando gli intrusi che non lo conoscevano.

Gli sponsali saranno celebrati da un druido locale, rigorosamente nato sul posto, che parlerà agli sposi dei diritti e dei doveri del matrimonio padano. Affiancherà il druido Silvio Berlusconi, il cui compito consisterà, vista la sua esperienza, nel dare consigli alle giovani coppie per la perfetta riuscita dell’unione coniugale. Noi, infatti, a differenza della sinistra scellerata che attenta ai sacri valori della tradizione, preferiamo non incoraggiare i divorzi. 😀

A proposito poi di druidi, una postilla. Che non capiti mai più quanto è avvenuto lo scorso sabato, quando abbiamo stanato un druido impostore!
Roberto Calderoli stava assistendo al matrimonio fra sua nipote Cunegonda I da Abbiategrasso con Alboino III da Malpensa, quando, dato il suo incredibile fiuto da segugio, si è accorto che il druido celebrante il rito non era padano. Abbiamo così appreso che il disgraziato era un muratore siciliano che voleva arrotondare i suoi guadagni ed era solito travestirsi da druido nei week-end allo scopo di prendere qualche obolo.
L’abbiamo espulso con infamia dal sacro territorio, intimandogli di non venire mai più qui al nord.
Ciò sia d’esempio per tutti!

Un professore timido

foto_cani_312.jpg
Al liceo, il mio professore di latino e greco era un uomo abbastanza timido e piuttosto pio: fervente e sincero cattolico, aveva improntato tutta la sua condotta esistenziale alle sue convinzioni etiche.
Era anche molto bravo e preparato nelle discipline che insegnava, un fatto riconosciuto da tutti, persino da coloro, ed erano molti, il cui profitto in greco e latino risultava scarso; inoltre era buono, serio nel dare i voti e privo di faziosità. L’unica sua caratteristica che a volte costituiva motivo di risate da parte di certi studenti era appunto una forma, se così la vogliamo definire, di timidezza, cioè la sua incapacità a sfiorare argomenti che avessero qualche lontana attinenza con la sfera erotica.

Una volta, ad esempio, durante una lezione di letteratura latina, dovette affrontare un discorso riguardante certi spettacoli degli antichi Romani: si trattava di spettacoli di serie B, ossia destinati a un pubblico dai gusti rozzi e un po’ volgari. Ebbene, in quella circostanza il nostro amato professore impiegò almeno dieci lunghi minuti in giri di parole ed eufemismi vari solo per dire che in certi spettacoli si usava fare spogliarelli. In un’altra occasione mentì a proposito dei rapporti di Catullo con una donna, spacciandola per sua moglie quando invece era la sua amante. Naturalmente noi eravamo a conoscenza della verità, anche perché sui testi trovavamo le biografie degli autori, ma evidentemente questo particolare sfuggiva al nostro pudico insegnante.

Fu così che, una volta, i ragazzi della IIC decisero di metterlo in imbarazzo con una domanda. Un alunno alzò la mano e, fingendo molta ingenuità e approfittando di un testo greco che stava leggendo, gli chiese: “Professore, mi scusi, cos’è un eunuco?”. Un silenzio mortale scese in classe, un silenzio di tomba. Il professore cominciò a tergiversare, arrossì, attese un po’, poi ritenne di trovare la salvezza pronunciando queste parole: “L’eunuco è un individuo mancante di qualcosa”.