Mattina di maggio. La giornata comincia con un’immagine che evoca pace, dolcezza e sogni dipinti di rosa: è il culmine della primavera, tenera ma intensa. Non scompaiono del tutto lacrime e malumori, ma il sentiero è tracciato, le svolte sono luminose e il cammino condurrà presto all’estate.
E si avverte una smania, una frenesia improvvisa, il desiderio di rompere gli argini, d’infrangere schemi, di arrendersi al tempo, di camminare fra le rose – e di parlare di niente, di respirare e basta.
Voglio la primavera delle corse sui prati, delle uscite improvvise, delle chiamate inaspettate, delle passioni ingovernabili. Voglio la primavera degli abiti a fiori, delle serate in compagnia, delle piccole fughe silenziose, dei diari nascosti nei cassetti – e dei pomeriggi piovosi a sfogliare ricordi.
Voglio intrecciare i fiori di maggio e farne tante promesse – tante speranze, per l’estate che verrà.
Le rose sono il regalo più bello dell’ultimo mese di primavera, il tratto peculiare di maggio, la sua essenza profonda. Compaiono nei giardini a infrangere la monotonia del verde – compaiono maliziose, quasi sfrontate. E intorno tutto muta. Si affacciano vanitose ai cancelli delle case, lasciandosi ammirare; e ci accompagnano, ci guardano affettuose mentre attraversiamo le strade, mentre pensiamo a tutto fuorché alla primavera, mentre rischiamo di smarrirci.
Le rose non temono il cielo sbiadito dei giorni più stanchi e il nostro umore spento, la nostra debolezza, quel voler camminare e non sapere dove. Le rose ci accolgono in silenzio e di silenzio vivono – e in quei giardini loro, le rose, prima nascono e poi scompaiono.
Ho scattato la prima foto in via Barbieri e tutte le altre in via Solieri.
Questa mattina, approfittando della giornata festiva, sono andata in centro storico e sono rimasta quasi sconvolta nel vederlo affollato come un tempo, come nel periodo pre-pandemia: bar all’aperto presi d’assalto, gruppi di persone ovunque, voci e urla in ogni dove. Da molto tempo, ormai, non sono abituata all’atmosfera vivace, talvolta da sagra paesana, che caratterizza il centro storico di sabato e di domenica.
Quando abitavo in centro, evitavo accuratamente d’uscire durante il sabato pomeriggio: mi bastava sentire le voci sulla strada, percepire il clima allegro che inondava le vie e, intanto, restarmene tranquilla, perché sapevo che, trascorsa la tempesta del fine settimana, dal lunedì il mio quartiere sarebbe tornato un luogo piacevole e vivibile, vivace ma senza eccessi.
Ho sempre amato molto il centro storico durante l’autunno e l’inverno, perché è un luogo in cui non si avverte alcun senso di solitudine; nello stesso tempo, quando si sta in casa ci si sente davvero “dentro”, chiusi, al riparo, una sensazione, questa, che non riesco a provare altrove: sono le vie strette, i palazzi legati gli uni agli altri, i cortili interni angusti e le mura spesse a infondermi un profondo senso di pace e di calore. Ma in primavera e d’estate il centro storico non mi è mai piaciuto troppo, perché l’avvertivo e l’avverto come una prigione, per gli stessi motivi che invece lo rendono bellissimo nelle altre stagioni.
Stamattina, dopo aver constatato l’assalto dei cittadini al centro, sono scappata via in fretta, e mi sono sentita libera e felice quando mi sono ritrovata immersa nella tranquillità e nel verde del quartiere Buon Pastore, a contemplare l’inizio dell’ultimo mese di primavera.
E allora adesso parlo del niente, del poco che ho fatto prima dell’ora di pranzo, attardarmi sul viale a guardare gli alberi che stanno cambiando colore. Quindici giorni fa il rosa era predominante:
Oggi è il verde a farsi spazio sugli stessi alberi:
Mi ha colpita l’estrema lentezza delle persone intente a passeggiare, nei parchi e sulle strade, quel procedere quasi senza meta, senza alcun fine, il puro piacere di andare senza dover rispettare scadenze, orari, impegni – il puro piacere di lasciarsi inebriare dalla primavera. Ed ecco le rose gialle – maggio ormai arrivato – le rose gialle avvinghiate a un cancello, per farsi ammirare:
Ci attende un’esplosione di rose e di sole, e un avvicinarsi all’estate di corsa, come a non voler attendere. Cerchiamo allora di viverlo intensamente, maggio, di viverlo nei suoi colori intensi, quasi sfacciati, e di lasciarci sedurre dai suoi tramonti.
Le prime foglie gialle cadono sospinte dal vento, e brillano al sole del mattino. Tu mi passi accanto, fantasma che non cede al tempo, anima disorientata lungo questa via silenziosa e stanca, di cui nulla t’importava, di cui quasi ignoravi l’esistenza.
Mi sfuggono le tue parole, mi sfugge il senso di questo camminare, eppure è qui che spero di vederti. Le persiane e il cancello sono chiusi, ma le rose d’ottobre resistono nel giardino immobile, come assopito e disfatto – lui sa che l’attesa sarà lunga.
Nonostante il cielo azzurro, sono il vento e il freddo ad accompagnare questa insolita giornata di maggio. Si avverte un po’ di delusione di fronte a una primavera in tono minore, quasi timorosa di esplodere in tutta la sua gioiosa e inarrestabile vitalità: troppi giorni di pioggia e di toni smorzati, troppa oscurità e troppa incertezza.
Le rose tremano al vento, vittime incolpevoli di questa furia cieca e irrazionale. Ma, d’improvviso, verrà un’altra primavera, tranquilla, pacata, in pace con se stessa e col mondo; verrà un’altra primavera a cancellare il freddo di questo maggio irrequieto e scostante. E nei giardini saranno soltanto fiori, fiori avvolti dal silenzio – e poi la quiete, e poi l’immenso.
Ci piacciono sempre, in ogni modo: superbe e maestose nei giardini di maggio accarezzati dal sole mite e compiacente; oppure, raccolte in vasi di porcellana, sensuali ed enigmatiche accanto a finestre attraversate dalla luce del tramonto.
E le amiamo anche umide di pioggia, straziate dal vento improvviso di giornate furiose o durante l’agonia di petali sfioriti e stanchi. Le amiamo nel loro splendore e nella loro decadenza, inebriati da quell’incanto di profumi, colori e forme che rimandano all’Altrove. Troppo belle per appartenere a questo mondo, le rose sanno d’infinito, di eterno – e insondabile mistero.
Sono strani questi giorni di maggio, sfuggenti e inquieti: il sole viene e va, i temporali smorzano d’improvviso la luce e i sogni, il cielo è spesso una tempesta di dolore.
Maggio: il culmine della primavera. Il mese delle rose, dei giardini profumati, delle fantasie indulgenti, della gioia che alimenta se stessa attraverso i colori e le passioni. Maggio: un cancello si apre a svelare un sentiero – ed è un vortice di rosa e di lilla, di felicità e tristezza, di passato e presente, d’infinito e oltre.
Il sole generoso di queste ore è un richiamo a pensieri lievi, fatti di fiori e di verde senza fine. Maggio è la primavera nel pieno del suo splendore: sicura di sé, quasi spavalda, priva dei tanti capricci di marzo e delle improvvise timidezze di aprile.
In queste giornate di luce e di risate non troppo sommesse, le rose non sono soltanto un pensiero o un ornamento, ma una compagnia dolce, misteriosa e indulgente. Su un tavolo, all’ora del tè, raccontano emozioni e ricordi di giardini percorsi dai segreti del cuore.
Strano come il grigio chiaro di questa lenta domenica di maggio non riesca a offuscare l’atmosfera primaverile. Ma si sa, anche la pioggia a primavera è particolare: leggera, delicata e forse frivola, è una pausa di riflessione priva della profondità e della solennità che accompagnano la pioggia autunnale. Una pausa di riflessione caratterizzata dalla certezza che seguiranno molti giorni di sole e cieli senza nubi.
Maggio è il mese delle rose. Fascino superbo e misterioso, profumo intenso, segreto di notti senza fine, sogno a occhi aperti. Rose sotto il sole, rose sotto la pioggia, rose salutate dal vento: vita breve e preziosa – e nessun timore al tramonto.
Freddo, neve, gelo, lunghe ore di buio. Date queste condizioni climatiche, un pensierino alla possibilità di andare in letargo, magari risvegliandosi a primavera freschi come rose appena sbocciate, sorge spontaneo. Ma a noi miseri esseri umani, impegnati a recitare come possiamo nel gran teatro dell’esistenza, circondati da carabattole inutili e impegnati in sfiancanti lotte per la sopravvivenza, il letargo invernale è vietato. Al massimo ci sono concesse alcune ore di sonno notturno, sempre che si abbia però la fortuna di riuscire a dormire bene.
D’inverno, il letto diventa particolarmente prezioso perché si trasforma in un oggetto “protettivo”: le coperte morbide e calde, e i piumoni gonfi e avvolgenti che lo ricoprono, assomigliano ad abbracci affettuosi e a carezze instancabili. Bello, tutto bello, non c’è che dire. Ma se iniziamo a pensare a determinati pigiami con cui a volte affrontiamo il riposo notturno, l’atmosfera appena descritta rischia di svanire come neve al sole, per lasciare spazio a incubi o a scene degne di un film comico.
Devo essere sincera? Siccome oggi sono incline ad affrontare argomenti seri e molto profondi, mi è tornata in mente la scena d’una serie televisiva in cui un brav’uomo, davvero intelligente, coraggioso e dotato di ottime qualità morali (l’uomo dei nostri sogni, insomma), osava entrare nel letto, accanto alla giovane sposa perdutamente innamorata, con un’inguardabile “tutona” alla Superpippo, lasciando attonite noi povere spettatrici.
Dopo una lunghissima sequenza di post seri e a tratti pesanti, ci voleva pure questo: il letto, il letargo, le carabattole e la “tutona”. Ma prometto che tornerò quanto prima a un livello un po’ dignitoso.