
Per far comprendere la storiella che intendo raccontare, devo fare una premessa. Al liceo la mia compagna di banco, una certa R., era una pettegola incallita, una che sapeva o sosteneva di sapere tutto di tutti. Per reperire informazioni sulle esistenze altrui, aveva una strategia le cui caratteristiche non ho mai voluto approfondire nel dettaglio. Ricordo che, durante l’intervallo delle ore dieci, usciva dalla classe e se ne andava in giro per la scuola; poi, terminata la pausa, tornava e mi raccontava qualcosa su personaggi dei quali io nemmeno sospettavo l’esistenza: il Tizio della IIA, il figlio del signor Tal dei Tali che stava in IIIB, il nipote dell’avvocato Caio che stava in IC e così via. Io l’ascoltavo, annuivo e poi dimenticavo quasi tutto. Eravamo molto diverse, io e R., opposte come il giorno e la notte, e probabilmente era proprio questa marcata differenza a tenerci unite. L’unica cosa che avevamo in comune era la folta capigliatura bruna: eravamo senza dubbio le più capellone della classe.
Un giorno, durante la ricreazione, mentre io ero felicissima perché stavo mangiando con calma un croissant e nell’aula non c’era confusione, R. piombò su di me con energia inaudita e farfugliò in fretta qualcosa a proposito di un ragazzo di un’altra sezione. Non compresi nulla, in quanto distratta dal croissant, e le feci ripetere il discorso: mi disse, tutta ansiosa, che nella IIB c’era un ragazzo che aveva l’abitudine di scrivere poesie. Io la guardai con stupore domandando il motivo di questa esternazione. Dato che non sapevo chi fosse costui, cosa poteva importarmi se scriveva poesie? Ma no – mi disse R. con una punta di stizza – è che a G. piace tanto!“.
Chi era G. ? Era l’altra nostra compagna di banco, una biondina con gli occhioni enormi, una che aveva l’abitudine, quando capitava qualcosa di anomalo, di guardarci in faccia a lungo e dire con preoccupazione: “O Dio mio!“. Ad esempio, se un compito in classe di greco l’aveva turbata, mi guardava negli occhi profondamente, quasi a volermi entrare nell’anima, e mi diceva: “O Dio mio!“. Oppure, se un professore affermava qualche sciocchezza (e non era cosa infrequente) mi ricacciava gli occhi addosso, intensamente, e mi diceva: “O Dio mio!“.
Dopo l’importante rivelazione di R. a proposito del poeta di IIB, arrivò in classe la nostra amica bionda (lupus in fabula!), camminando svelta svelta com’era solita fare, scuotendo i capelli e dicendo: “O Dio mio!“. Appena sentii il Dio mio mollai in un angolo il croissant e le chiesi: “Cosa ti è successo?“. Lei mi fissò con ardore e disse: “Mi piace tanto un ragazzo che sta in IIB e scrive poesie“. E continuò a fissarmi con gli occhi spalancati. Io non le dissi che la cara R., come al solito, mi aveva anticipato la notizia e, mentre stavo cercando il commento più adatto alla circostanza, G. ci pregò di non parlare a nessuno di questa sua infatuazione.
Ora, come tutte le persone adulte e vaccinate sanno, il miglior modo per far conoscere un segreto consiste nel pregare altri di non rivelarlo. Io sono sempre stata molto discreta: se mi si chiedeva di tacere su qualcosa, stavo zitta senza difficoltà. Ma R. non era così, tutt’altro. Lei ci sguazzava in queste cose e io, fin da subito, compresi che il ragazzo della IIB, di lì a non molto, avrebbe saputo tutto.
Per qualche giorno, il copione delle nostre mattinate scolastiche si ripeté identico: durante la ricreazione G. usciva in fretta dalla classe per sbirciare con ansia, nel corridoio, il poeta di IIB; R., invece, filava via dall’aula senza aprire bocca e non si sa dove andasse. Dopo meno di una settimana, sempre durante l’intervallo, R. entrò in classe tutta spumeggiante, si diresse verso di me e mi disse: “Oh! Pensa che il ragazzo della IIB è venuto a sapere che G. ha una cotta per lui!“. Be’, guarda, avevo sospettato dall’inizio che tu avresti fatto in modo di farglielo sapere. Queste furono le parole che pensai ma evitai di dirgliele. R. gongolava e strepitava, curiosa di vedere cosa sarebbe accaduto. Io, invece di gongolare, con sano realismo mi chiesi come avrebbe reagito questo soggetto che non conoscevo.
Ebbene, alcuni giorni dopo R. chiamò la biondina e le disse di andare in corridoio, durante l’intervallo, perché il ragazzo della IIB aveva scritto una poesia per lei e voleva leggergliela. A quel punto persino io, sempre così discreta, fui colpita dal gesto di costui e m’incuriosii parecchio; così, nel momento fatidico, acconsentii a farmi trascinare in corridoio da R. per assistere al lieto evento. Finalmente vidi il poeta intento a leggere il suo componimento alla nostra amica: era un gran bel ragazzo moro, alto e atletico, e, cosa fondamentale – direi anzi di primaria importanza – aveva addirittura lo sguardo da persona intelligente. Ma ciò che non dimenticherò mai fu il volto di G. che, intimidita ed estasiata nello stesso tempo, lo ascoltava con gli occhioni enormi ancora più spalancati del solito.
Dopo il fatto, G. trascorse la restante parte della mattinata nel mondo dei sogni e non ci fu verso di farla applicare al latino e alla matematica. En passant, aggiungo che fra i due non nacque nulla, la qual cosa un pochino mi stupì. Tuttavia, G. si rassegnò abbastanza in fretta perché si fidanzò dopo un po’ di tempo con un individuo del suo paese.