
Tutti gli anni, quando arriva l’estate, la prima parola che mi viene in mente è libertà. Il sole e le giornate lunghissime, unite ai discorsi sulle imminenti vacanze, evocano immagini colme di spensieratezza, di pace, di colori forti e decisi. Le mura di casa cominciano a diventare soffocanti, la pianura, squallida e malsana, è un luogo da abbandonare almeno per alcuni giorni e le ansie sono un fardello da gettare via senza rimorsi. Per essere finalmente liberi, per inebriarsi di luce e di nuovi orizzonti. È il momento della dispersione, delle frivolezze, dei giochi con la vita, del disimpegno.
Eppure anche l’estate, come le altre stagioni, ha i suoi silenzi, i suoi momenti di quieto raccoglimento. I silenzi d’estate accompagnano il primo pomeriggio, quando le strade roventi per il caldo sono quasi vuote e l’afa impone una lentezza altrimenti sconosciuta. Spesso sono silenzi in vista della festa, del divertimento, dell’allegria e dello svago: sono privi di solennità, a tratti persino fatui, oppure monotoni nella loro superficialità. E quando sono invasi dai ricordi, non raggiungono mai l’enigmatica e struggente profondità dei silenzi autunnali o la rigorosa severità di quelli invernali, ma conservano sempre la loro leggerezza, una leggerezza che talvolta diventa indifferenza.