
Dopo una giornata piovosa e scura, è calata la sera, spettrale, avvolgente, misteriosa. Immersa in questa atmosfera quasi irreale, è inevitabile per me lasciarmi trasportare dal silenzio e dall’enigmatica serenità che soltanto l’autunno sa regalare. D’improvviso arrivano frammenti di memorie da un tempo lontano, forse ridestati dal volto malinconico di ottobre. Come fantasmi decisi a comparire per chissà quale ragione.
E così rivedo un altro grigio e un ottobre di molti anni fa: sono in giardino, mi guardo intorno intristita dall’atmosfera cupa – ho soltanto sei anni, preferisco l’estate – e, dal portone del palazzo, esce il professore. Mi sorride come sempre e cammina svelto, con la testa un po’ reclinata da un lato; esce dal cancello, sale in macchina, se ne va. Ogni volta che lo vedo, è sempre la stessa cosa: il sorriso, l’aria mite, il passo svelto. Ma poi arriva un giorno particolare, un giorno in cui qualcuno annuncia che il professore non tornerà più: è morto in un incidente stradale, su in appennino. Sua moglie è finita all’ospedale, ma i medici dicono che se la caverà. Il sorriso del professore, invece, è svanito per sempre.
Rivedo la signora M., vedova, che vive al terzo piano. Tranquilla, gentile, anche lei sempre sorridente, sempre serena nonostante tutto. Un’esistenza semplice, la sua, che i più superficiali definirebbero banale, e che invece ha lo splendore di un mondo d’affetti intorno. Non l’ho mai vista arrabbiata, non l’ho mai sentita alzare la voce.
Al quarto piano, invece, c’è la terribile signora F. Terribile è un termine eccessivo: con noi vicini di casa è buona sebbene, in apparenza, un po’ scorbutica e con un tono di voce da maresciallo dei carabinieri abituato a impartire ordini. Ma è terribile per ciò che ha fatto a suo figlio. Lei non lo ama: lo adora, letteralmente. E per lui è un guaio, un guaio grosso. Spesso alcuni inquilini del palazzo le dicono di smetterla, di lasciarlo libero, di non soffocarlo così; le dicono che lo sta rovinando, che dovrebbe lasciarlo libero di fidanzarsi, di sposarsi. Ma a lei non importa, lei non ascolta nessuno perché ne è innamorata, innamorata pazza. E non lo chiama neppure per nome: lo chiama maestro. Il fatto che sia diventato maestro, per lei che proviene da una famiglia poverissima, è motivo di grande orgoglio. Quando lui arriva a casa, nel tardo pomeriggio, lo aspetta sempre in giardino come una fidanzata ansiosa, e, se qualcuno di noi si trova nei paraggi, grida tutta entusiasta: “Sta arrivando il maestro, sta arrivando il maestro! Allontanatevi, devo aprire il cancello!”. Lui scende dalla macchina con l’aria seria e rassegnata; a volte, mentre la madre si avvicina per accarezzarlo, la respinge e si arrabbia. Ma non ha la possibilità di andarsene da casa, e, del resto, è ormai talmente depresso da non riuscire a reagire.
Un giorno, a Carnevale, me ne sto in giardino trastullandomi col mio bel vestito da damina. C’è il sole, la giornata è stranamente mite nonostante sia febbraio. D’improvviso arriva la signora F. insieme al figlio e, con voce perentoria, mi dice: “Vieni, vieni con noi! Il maestro ci porta alla sua scuola dove c’è lo spettacolo di Carnevale!”. Io, timida, farfuglio una risposta: “Non so…devo dirlo a mia madre.”. Lei strilla prepotente: “Ma no! Vieni via, tanto facciamo presto, non c’è bisogno di avvertire nessuno!”. Io, impaurita dal tono della sua voce, salgo in macchina muta. La signora F. mi ha annichilita.
La signora C., invece, è quella che, se potesse, in casa volerebbe. Solo che non ha le ali in dotazione, quindi non può farlo. Maniaca dell’ordine e dei pavimenti lucidi, obbliga il marito a mangiare sul lavandino della piccola cucina, per non sporcare la sala da pranzo, e non si siede mai in salotto, proprio mai: ha detto che quello è lì solo per bellezza. Si guarda ma non si tocca, proprio come si fa con gli oggetti preziosi. La signora C. ha un nipote molto simpatico, un bambino buono, privo di malizie ed educato. Quando viene da sua nonna, giochiamo insieme in giardino. Una volta, in primavera, andiamo alle giostre, insieme a mia madre e alla signora C. Siamo piccoli, pieni di brio e ci scateniamo come furie, dando filo da torcere alle nostre povere accompagnatrici. Quanti ricordi!
Ma ci sono altre persone nel palazzo della mia infanzia, e, se volessi, non finirei più di scriverne. Per ora mi fermo qui. Però non posso fare a meno di dire che, spesso, mi torna in mente il professore, probabilmente per la sua fine così improvvisa. E non so perché, non ne capisco le ragioni: compare d’improvviso, davanti ai miei occhi, e sorride camminando velocemente, sempre con la testa un po’ reclinata. Sorride come se non se ne fosse mai andato o come se dovesse tornare. Quanto al maestro, ho saputo che, molti anni fa, ha messo sua madre in una casa di riposo ed è diventato diacono.