Dichiaro ufficialmente aperta questa giornata. Comincio con un’ottima colazione:
Ma sì, ho barato. Non mi trovo all’aperto, abbracciata dal verde e dai fiori, ma sono in casa, con un occhio chiuso e uno aperto, mentre tento di tornare in vita, di prendere contatto con la realtà, di cominciare la giornata. Trangugio il mio caffè, sperando che faccia effetto, e poi bevo il mio tè e mangio qualche biscotto – cioè, mi sforzo di mangiarlo, tento, ci provo.
Va detto che, in fondo, ciò che conta è l’intenzione e io ce l’ho, eccome se ce l’ho. Fra poco sarò del tutto sveglia, pronta per gettarmi fra le braccia del mondo e darmi da fare.
Chi se lo ricorda? Io sì, l’ammetto. Per un ventenne si tratta di un oggetto quasi misterioso o di una specie di reperto archeologico, da guardare con curiosità e forse un pizzico di compatimento. Per me e per molte altre persone, invece, appartiene all’universo delle memorie e rievoca immagini legate all’infanzia – emozioni, gioie e sofferenze.
Quel telefono dell’ormai mitica SIP era pesante e abbastanza grosso da farsi notare. Nelle case, la sua esistenza si svolgeva soprattutto nei corridoi e lungo gli ingressi, spazi purtroppo quasi inesistenti nelle abitazioni attuali. Proprio lì, in quelle aree di passaggio, il telefono grigio con grossa rotella incorporata assumeva un ruolo fondamentale nella nostra vita quotidiana: era l’unico mezzo per comunicare a voce con le persone lontane. Ben presto, a casa mia fu sostituito con un telefono fisso a tasti, che salutammo come segno di grande progresso nel campo delle comunicazioni.
Ma con un telefono fisso in corridoio non sempre ci sentivamo liberi e libere di parlare, perché chi era in casa con noi poteva ascoltare tutto. Così si poneva il problema di trovare soluzioni “creative” per nascondere alcune cose ai nostri genitori – appuntamenti, flirt, piccoli, innocui segreti considerati di notevolissima importanza. A soccorrerci erano spesso le cabine telefoniche, comodissime in un’epoca in cui non erano diffusi i cellulari. Lì potevamo telefonare e dire tutto ciò che avevamo in mente, senza che i nostri familiari ci ascoltassero.
Quando lasciai via Savani e mi trasferii ad abitare in centro storico, la nuova casa era talmente grande che un solo telefono fisso non poteva bastare; così, ebbi il mio bel telefono in camera, che mi garantiva un certo grado di privacy. Poi arrivarono in fretta i cellulari e il modo di comunicare cambiò per sempre, segnando una brusca rottura con il passato, un autentico punto di non ritorno.
Ogni tanto, quando ripenso all’infanzia, mi sovviene il ricordo del telefono grigio con la rotella e mi sembra di appartenere davvero a un altro mondo, quasi a un’epoca remota. Eppure mi piace sentirmi un po’ obsoleta, perché ciò implica una lieve forma di distacco rispetto al presente e al mondo, un piacevole senso di non appartenenza che, a volte, mi regala pace e armonia in un modo che non so neppure spiegare.
Io sono novembre ed eccomi qui a salutarti. Oggi me ne vado e voglio congedarmi come si deve.
Lo so, sono un mese complicato. Ho visto troppe cose, conosco il mondo – io sono saggio e assai prudente, io sono cupo e realista.
La mia bellezza è fatta di tramonti e mille sfumature, di nebbie fitte e cieli nuvolosi, di foglie morte e alberi dorati. Non voglio colpirti, non voglio sedurti d’un tratto e abbagliarti; io so avvolgerti adagio e poi abbracciarti, quando la stanchezza ti travolge e le memorie non ti danno tregua.
Io sono il confine che separa due regni, io sono il mistero e la notte profonda – e ti comprendo, non sai neppure quanto.
Tornerò fra un anno e sarà ancora come la prima volta.
Quest’anno l’autunno astronomico comincerà il 23 settembre alle ore 3.04 italiane, ma la prima, grave rottura dell’estate si è già verificata, per cui la nuova stagione è già qui.
Noi amanti dell’autunno formiamo un club particolare. Qualcuno ci definirebbe strani, qualche altro, poco incline alla pietà, non avrebbe riguardi e ci chiamarebbe disadattati, depressi e malinconici senza speranza. Eppure non siamo pochi; solo che tendiamo al silenzio e siamo schivi, riservati, pensierosi, talvolta sognatori.
Forse, nonostante i nostri sforzi, non apparteniamo del tutto a questo mondo – non interamente, almeno, non abbastanza. C’è qualcosa, in noi, che oltrepassa il comune sentire, l’essere pieni di vita e spenti nel medesimo istante, senza poterlo spiegare, senza poterlo raccontare. Siamo un mistero, proprio come questa splendida stagione.
Accadde tanti anni fa, quando frequentavo le scuole elementari. In una fredda mattina di novembre, presi un quaderno e cominciai a descrivere tutti i mesi dell’anno per mezzo di disegni e frasi o frammenti di frasi. Dei disegni, ricordo soltanto una sciarpa colorata che, nella mia immaginazione infantile, rappresentava una delle caratteristiche fondamentali di novembre, insieme a un ombrello. E così, per un’intera mattinata di un giorno festivo, mi divertii a definire mesi e stagioni ricorrendo a colori e a pensierini sparsi.
Oggi, ripensandoci, mi accorgo che questo blog è la riproposizione, in forme diverse, di quel piccolo svago di tanti anni fa, uno svago che rispondeva a un’esigenza profonda, a un modo di afferrare la realtà e d’interpretarla che non è svanito col tempo, ma si è riaffermato ora in tutta la sua urgenza. Perché nel corso degli anni tutti noi cambiamo, è vero, ma la nostra essenza più profonda non va perduta.
Parlare delle stagioni non è soltanto un’occasione per suscitare emozioni, ricordi e fantasie. Il flusso delle stagioni è parte integrante del mondo della natura, di cui noi siamo frammenti; osservare le stagioni, allora, significa anche osservare se stessi e comprendere molto di ciò che si è.
Dalle stagioni possiamo ricavare numerosi insegnamenti sul modo migliore per compiere il viaggio della vita, pericoloso, ambiguo, irto di complicazioni ma affascinante.
Primavera: inizi, entusiasmo, semplicità
La primavera è il principio, il necessario inizio, perché, si sa, tutto comincia. E l’inizio reca con sé grande entusiasmo, un’energia istintiva e un po’ scomposta. La primavera è il camminare incerto fra timori e curiosità, fra l’osare e il trattenersi, tra l’andare avanti e il tornare bruscamente indietro. Ne sono prova le giornate miti e serene che d’improvviso si fanno cupe, il sole alto che si ritrae di colpo a causa della pioggia, il caldo e il freddo che si rincorrono in maniera caotica.
Il grande insegnamento della primavera è il valore della semplicità, rappresentato dai suoi fiori di campo, bellissimi e modesti, e dai suoi colori freschi, vivi e un po’ ingenui. Basta poco per essere felici: il cielo sereno, un bel campo verde, un albero rigoglioso, le margherite, il rumore della pioggia sui tetti. Non occorre affannarsi a cercare lontano: è tutto lì, davanti ai nostri occhi.
Estate: divertimento, spensieratezza, eccesso
L’estate è un desiderio profondo, una necessità cui non si sfugge: è la voglia di abbracciare il mondo senza riserve, di divertirsi, di fare baccano, di tralasciare imposizioni e doveri. L’estate è il giorno che vince sulla notte, il vivere randagio a scapito della permanenza, l’insofferenza alle regole, lo scherzo e la follia di una serata magica. L’estate è la giovinezza dopo l’adolescenza, il calore intenso delle passioni che bruciano fino a consumarci, la presunzione del sentirsi immortali, il bisogno di esagerare. L’estate è ostentazione, vacanza, senso di onnipotenza che sa trasformarsi in crudeltà.
L’estate c’insegna il valore del mondo esterno e della fisicità. C’è un momento in cui bisogna uscire nel mondo, osare, scontrarsi con esso, fare qualche follia. E non pensare troppo.
Autunno: introspezione, mistero, complessità
Ormai il mondo si è svelato, con le sue luci abbaglianti e le sue pochezze. Così, il fuoco dell’estate è destinato a spegnersi adagio, giorno dopo giorno. Scompaiono superficialità e ardori momentanei, e subentra la riflessione, lenta ma decisiva. L’autunno è il ripiegarsi per capire, chiedere spiegazioni, cogliere sfumature e differenze. È il piacere intenso dell’introspezione, ma senza severità, è il senso profondo del mistero che ci avvolge tutti, la vita indissolubilmente legata alla morte e la sensazione che non è tutto qui e ora. Adesso si cominciano a chiudere alcune porte e ad apprezzare le ombre, la nebbia, le distanze.
L’autunno c’insegna il valore della complessità. Dopo l’ebbrezza del mondo esterno, è indispensabile rientrare in se stessi e soffermarsi a capire, senza stancarsi, andando fino in fondo.
Inverno: severità, rigore, autosufficienza
Con l’inverno tutto è ormai compiuto: l’introspezione ha portato i suoi frutti, la comprensione è definitiva, le incertezze sono scomparse. Il freddo è molto intenso, i giorni sono scuri: adesso bisogna difendersi. L’inverno è rigore, severità, giudizio tagliente e senza appello, decisione irrevocabile. Non si può più procrastinare. È il momento di bastare a se stessi, di affilare le proprie armi, di preparare strategie per non farsi trovare impreparati.
Bisogna liberarsi di tutto ciò che è inutile e che impedisce di procedere, bisogna fare pulizia e conservare soltanto l’essenziale, per camminare senza fardelli. Tutto è chiaro e affilato come una lama lucente, che ci chiede di tagliare, tagliare subito e senza tentennamenti. Ora le porte sono davvero tutte chiuse.
L’inverno c’insegna il valore dell’autosufficienza, che è la condizione indispensabile per vivere senza farsi troppo male. Per essere sereni a dispetto di tutto.
Per non lasciarsi trascinare dal caos del mondo, dalla volgarità dilagante e dagli umori maligni delle persone moleste, bisogna cercare la bellezza e restare ancorati ai propri valori, ammesso che se ne abbiano.
Nei momenti di crisi, nei periodi complicati, il ricorso alla bellezza e ai nostri principi più profondi sono l’unico mezzo per salvarci. La bellezza è declinata in tanti modi e tocca a ciascuno di noi coglierla: i colori del tramonto, i fiori primaverili che sbocciano per lasciarsi ammirare, la pioggia sottile che sembra cantare, la rugiada del mattino, un buon libro, la musica di quel tempo lontano; e poi ascoltare il silenzio, scoprire sentieri nascosti, parlare alla luna, afferrare ciò che sfugge a molti. Chi ritiene che ciò significhi accontentarsi, non ha compreso nulla della vita.
Oltre alla bellezza, sono indispensabili i valori, quelli cui aggrapparsi quando infuria la tempesta, i principi nei quali crediamo e che danno un senso a tutti i gesti quotidiani: sono loro a definire in modo chiaro le cose che non faremmo mai, quelle che nessuno può obbligarci a fare. Se si è talmente forti e saggi da attraversare il mondo saldamente legati ai propri valori, si troverà sempre una via d’uscita.
Viviamo in un mondo che esalta in tutti i modi, espliciti o ambigui, la sopraffazione, la prepotenza, la competizione sfrenata, la capacità di manipolazione, la sfrontatezza. Certo, nulla cambierà. Tutto resterà così fino alla nostra estinzione, che peraltro, visti gli ultimi avvenimenti, sembra abbastanza vicina.
Le persone migliori, cioè quelle calme, ragionevoli, capaci di empatia e di sentimenti costanti e profondi, sono considerate spesso perdenti o deboli. La realtà è invece un’altra. Chi ha bisogno d’ingannare, truffare, umiliare e manipolare gli altri per sentirsi forte, è un fallito dentro, nella propria interiorità, nel proprio essere più profondo. E il mondo trabocca di questi falliti.
E ieri era così la luna grande, rotonda e bianca nel cielo addormentato – la luna pensierosa e il desiderio mio di afferrarla d’improvviso, ché lo sapevo, lei era lì apposta, davanti alla finestra per farsi accarezzare.
E i giorni antichi, le sere a primavera, la stessa luna a guardarci silenziosa – ci riconosce, lo sa chi siamo ora. Vorrei tagliarla di nascosto, vorrei sottrarla al cielo, vorrei rubarla alla notte quando il mondo fuori tace; e poi rinchiuderla, lasciarla riposare – per regalarmi sogni e non dovermene pentire.
Sono giorni molto tristi, giorni di rabbia profonda. Gli incendi che hanno colpito e che continuano a colpire vaste aree del nostro Paese – e non solo – sono una ferita profonda, una catastrofe devastante. E la colpa è nostra, perché nella stragrande maggioranza dei casi sono roghi appiccati volontariamente dagli esseri umani, che si dimostrano ancora una volta i peggiori abitanti di questa povera Terra. Spesso, guardandomi intorno e vedendo le tante crudeltà di cui siamo responsabili, penso che se ci estinguessimo tutti in blocco il pianeta intero ne ricaverebbe un gran beneficio.
Ma poi mi sovviene un altro pensiero, e cioè che ogni tanto, su questa Terra martoriata, passano fugacemente anche persone di tutt’altro genere, persone che trascorrono la vita impegnandosi ad alleviare le sofferenze altrui, a testimoniare l’importanza e la necessità della pace, del rispetto, della tolleranza. E questo un po’ mi consola.
Ebbene sì, eccola qui la cabina telefonica dei miei tempi. L’ho citata persino in qualche vecchio post, questa mitica cabina situata all’entrata del parco di viale Buon Pastore. Ricordo quando a volte, da adolescente, me ne servivo durante i lunghi pomeriggi di giugno trascorsi fuori casa. I cellulari non c’erano e quindi le possibilità erano soltanto due: entrare in un bar e telefonare da lì oppure usare queste cabine, che all’epoca sembravano un trionfo di progresso insuperabile. Mai avremmo immaginato che, dopo pochi anni, sarebbero diventate oggetti quasi obsoleti, da guardare con un po’ di commozione.
Le tracce materiali del passato sono sempre rassicuranti, specialmente in un’epoca di enormi trasformazioni, di cambiamenti rapidissimi. Ammetto che, qualche volta, anch’io mi sento come quella cabina solitaria rimasta senza porta: un po’ fuori moda, a mio agio e in difficoltà nello stesso tempo, dentro al mondo e fuori di esso – come vivere lungo un confine incerto, di fronte a un paesaggio evanescente. Ma va bene così, deve essere così quando gli anni passano, le memorie si accumulano e si ricordano tempi lontani, ritmi diversi, valori quasi scomparsi.
Non vorrei tornare indietro; la retorica dei bei tempi andati non mi appartiene. Però mi piacerebbe trascorrere una breve vacanza nel passato: mi basterebbe un fine settimana ogni mese, soltanto per recuperare la me stessa di ieri – ciò che ero e mai più sarò -, e rivivere atmosfere definitivamente perdute, dissolte dall’impietoso scorrere del tempo.
Ma visto che ciò è impossibile, mi accontento di contemplare la mia bella cabina telefonica, impolverata e stanca, immobile sotto il sole e la pioggia, abituata a sopportare tutte le intemperie.