
Il sole di queste giornate, dopo la breve parentesi della neve, è un invito a sognare la primavera, un richiamo irresistibile verso i mesi che verranno. Per me, la primavera non è tanto una stagione che ogni anno si rinnova quanto un ricordo, il ricordo quasi incantato di un tempo molto lontano. Durante l’infanzia e la prima adolescenza, la primavera era meravigliosa, qualsiasi cosa accadesse, qualunque fosse il mio stato d’animo del momento: era la vita innamorata di se stessa che emergeva dalle gelide oscurità della stagione fredda, era il frenetico ottimismo del cielo felice, era la speranza in un’età in cui si sperava sempre, a prescindere da tutto e persino contro ogni evidenza.
Allora riuscivo a notare ogni sfumatura della primavera perché la osservavo, la vivevo, la sentivo dentro, era parte di me: una magnifica, splendente, ingenua illusione. Ricordo che ogni scusa era buona per uscire da casa e correre via, magari soltanto nel parco più vicino; ma era abbastanza per lasciarsi inebriare dalla fremente vitalità della stagione e gioire di essa. Le giornate di pioggia erano intervalli malinconici, che suscitavano rabbia perché spezzavano l’allegra danza delle giornate di sole; tuttavia, anche allora percepivo uno strano fascino nella pioggia primaverile, quasi fosse un momento in cui comunicare con una dimensione misteriosa.
Adesso, della primavera apprezzo l’assenza di eccessi, i momenti impetuosi ma privi di cattiveria, gli sguardi obliqui e curiosi, l’irrefrenabile desiderio di piacere, l’ingenuità delle tinte pastello che riescono a colorare persino le giornate più spente. Ma ho la spiacevole impressione che se ne vada sempre troppo in fretta, assorbita dalla prepotente personalità dell’estate. E poi mancano certe illusioni, senza le quali la primavera non può più essere la stessa.
(Nell’immagine il dipinto In giardino, di Giuseppe De Nittis)