William Ford, At the Hanging Rock, 1875 (National Gallery of Victoria, Melbourne)
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Agosto, vacanze e amenità (2)
Come ho già scritto altre volte, quando, durante l’infanzia e l’adolescenza, trascorrevo il mese di agosto nella casa in appennino, io e le mie cugine ne inventavamo di cotte e di crude pur di sollazzarci.
All’epoca io ero dotata di molta fantasia, tanto che una volta, mentre me ne stavo seduta a guardare le mie cugine che giocavano a tennis, mi venne l’idea di fare la radiocronaca della partita: cominciai a fingere di essere una giornalista sportiva e iniziai a commentare a modo mio – in un modo molto particolare – ciò che vedevo. Il risultato fu davvero esilarante, con le mie cugine che non smettevano di ridere sentendo ciò che inventavo. In sintesi, le descrivevo come due campionesse famose nel mondo intero per il loro look stravagante e certi vezzi, oltre che per la tecnica di gioco. Ripensandoci ora, mi stupisce il fatto che, durante questa recita, non mi fermavo: parlavo, parlavo e parlavo in continuazione senza alcuna incertezza, come se tirassi fuori da un cilindro magico ogni parola che pronunciavo. E questo gioco piacque così tanto che, durante altre partite, le mie cugine mi obbligarono a replicarlo.
Ricordo poi che un giorno, dopo ore di corse e trastulli in giardino, eravamo particolarmente annoiate. Era il tardo pomeriggio e ormai disperavamo di poter arrivare all’ora di cena facendo qualcosa di stimolante; ma d’improvviso arrivò mio nonno che ci disse di voler provare un’automobile. Il fatto era questo: mio nonno voleva acquistare una macchina e, proprio in quel momento, stava per fare un lungo giro di prova su un’auto ferma sulla strada, con un individuo dentro che doveva guidarla per mostrarne tutte le presunte qualità. Per noi fu come trovare un’oasi nel deserto: immediatamente seguimmo mio nonno, che in verità ne avrebbe fatto volentieri a meno, per provare la suddetta automobile. Ci trovavamo, per così dire, in tenuta da giardino, nel senso che non indossavamo i nostri abiti migliori ed eravamo anche un po’ spettinate. Insomma, non avevamo un look adeguato a un lungo giro in macchina con uno sconosciuto. Ma non ce ne curammo: corremmo in strada come tre indemoniate, salimmo in macchina sul sedile posteriore e, tutte allegre, partimmo per il giro di prova fingendoci interessate all’auto, della quale in realtà c’importava meno di nulla. Però durante il viaggio, per darci un contegno, cioè per non sembrare tre scellerate in cerca di una gita gratis, ogni tanto esprimevamo un (ehm) preziosissimo parere tecnico sull’auto, sulla sua perfetta stabilità durante le curve ( sic!) e sul bellissimo rumore del motore (ancora sic!). Ebbene, quel viaggio di prova fu molto divertente perché, al contrario delle nostre aspettative, fu lungo, tanto che tornammo a casa dopo le venti, felicissime di aver scroccato una bella gita. Poi mio nonno non acquistò l’auto, ma intanto la gita era stata fatta.
A quell’epoca, nel mese di agosto, l’ultima cosa che avremmo voluto vedere era la pioggia. Ma in montagna, prima o poi, anche solo per un giorno la pioggia arriva. E così, proprio in un pomeriggio malinconico e piovoso, mentre eravamo inquiete alla prospettiva di dover restare in casa, la mia cugina maggiore ebbe un’iniziativa: filò in cantina e prese un’orrida coperta, vecchia e persino un po’ bucata, che mio nonno aveva intenzione di gettare via. Con questa coperta color melanzana e tre bastoni corremmo in giardino e lì, su uno dei due prati in cui c’erano cipressi e piccoli abeti, piantammo i bastoni e creammo una specie di tenda. Sedute sul prato bagnato sotto la tenda, cioè sotto l’orrida coperta vecchia destinata alla spazzatura, ci sembrò di rivivere: la pioggia non era più una nemica ma un’occasione per divertirci. Tralascio di descrivere lo stato dei nostri abiti dopo questa incauta avventura, visto che si può immaginare con facilità. Però fummo molto soddisfatte perché, nonostante il grigio e la pioggia, eravamo riuscite a starcene per un po’ all’aperto.
Ricordi di un’estate remota
Verso i dodici o tredici anni, quando trascorrevo l’estate in montagna, ogni mercoledì mattina partivo con mia cugina, che aveva un anno e mezzo meno di me, per andare ad acquistare alcuni giornali. La mia casa, infatti, si trovava in una piccola frazione nella quale le edicole erano assenti; così, per mantenere qualche contatto con il mondo, eravamo obbligate a recarci nel comune vicino, a soli tre chilometri di distanza.
Perché avessimo scelto il mercoledì come giorno da dedicare al nostro viaggio è cosa che non ricordo. Ricordo però che, immerse come eravamo nella quieta monotonia dell’estate in appennino, con le giornate che sembravano interminabili, questa piccolissima gita era anche un modo per spezzare la settimana, per fare qualcosa di diverso, per ritagliarci uno spazio di assoluta libertà senza la presenza di persone adulte accanto.
Partivamo in corriera intorno alle 9. Il viaggio era brevissimo, sette o otto minuti scarsi di una lunga serie di curve in salita; poi, l’arrivo nella piazza principale del paese e il nostro breve tragitto fino all’edicola, che era anche una bella cartoleria. Qui, compravamo una serie di settimanali con i quali speravamo di svagarci un po’ nei momenti di noia e, nel mio caso, compravo anche molti quaderni perché avevo la mania di scrivere, scrivere e ancora scrivere. Finito l’acquisto, tornavamo subito a casa. Non so perché non amassimo fermarci in paese, guardare qualche vetrina, magari sederci in un bar all’aperto come due turiste qualsiasi; so soltanto che avevamo sempre una gran fretta di andarcene. Solo che il tragitto di ritorno avveniva rigorosamente a piedi attraverso un sentiero, e credo che, in fondo, lo scopo reale della nostra gita del mercoledì consistesse proprio nel poter compiere questa lunga, bellissima passeggiata.
Il sentiero che conduceva alla nostra frazione era caratterizzato, a pochi metri dal suo inizio, da una discesa estremamente ripida, così ripida che, nonostante l’asfalto, il rischio di cadere era altissimo, tanto che occorreva procedere molto lentamente, con estrema cautela. Ma, per fortuna, questa terrificante discesa era lunga due o tre metri al massimo e, dopo di essa, non dovevamo fare altro che abbandonarci serenamente a uno splendido percorso ondulato, circondato da prati, fiori e alberi abbracciati dalla placida calma del sole estivo.
All’epoca ignoravamo che, dopo molti anni, avremmo rimpianto un rito così banale, così semplice, quasi insignificante; ignoravamo che l’avremmo rimpianto non solo per se stesso, ma anche e soprattutto per la spensieratezza e per il senso di libertà con cui l’affrontavamo. Con noi, non avevamo cellulari, non avevamo nessuno smartphone, non potevamo connetterci con il resto del mondo mentre camminavamo tranquille in mezzo all’estate e ai monti. Eravamo sole, noi due e basta con la natura circostante, con le nostre chiacchiere, con le nostre battute, con i nostri desideri. Eravamo là, quasi sperdute in un angolo remoto dell’appennino; ed eravamo contente perché intorno c’erano soltanto pace e silenzio.
(L’immagine è tratta da: http://www.escursionistaeditore.com/guide/escursionismo/italia-guida-ai-sentieri-dell-alto-appennino-modenese-dal-corno-alle-scale-all-abetone-er107.html)
In gita
Siamo quasi tutti in vacanza o, almeno, lo siamo con la testa, e i pensieri volano lontano in cerca di qualche ricordo e di un po’ di risate. D’altra parte il caldo non è più troppo intenso, l’estate è diventata piacevole e ci si sente allegri e spensierati, desiderosi di non prendersi troppo sul serio. E allora…
Durante l’infanzia e l’adolescenza, trascorrevo il mese di agosto in un paese dell’Appennino tosco-emiliano (quello che si vede in foto): lì, infatti, la mia famiglia aveva una casa. Una volta, quando avevo dieci anni, il parroco del luogo organizzò una gita a Sotto il Monte, in provincia di Bergamo, paese natale di papa Giovanni XXIII. Con mia grande sorpresa, a mia madre, che non era mai stata amante di questo tipo di viaggi, venne il ghiribizzo di parteciparvi e di trascinare anche me nell’avventura. Io, però, ne avrei fatto volentieri a meno. Che la cosa mi risultasse sgradita non deve stupire: essendo libera di scorrazzare tutto il giorno in giardino come una piccola selvaggia, l’idea di dovermi alzare alle cinque della mattina (eh sì, alle cinque!) per lasciare i monti e mettermi in viaggio verso la pianura padana, il tutto su un pullman pieno di gente che conoscevo a stento, non mi convinceva. A ciò si aggiunga la mia introversione e si capisce quale potesse essere il mio stato d’animo. Purtroppo, però, a quell’età si può fare ben poco se i genitori si mettono in testa qualcosa e perciò fui costretta a partire.
Com’è tristemente noto ai più, in questi casi chi organizza una gita tende a fare le cose in grande, in una sorta di vertigine dell’accumulo: non si vuole visitare bene un luogo interessante, ma si vogliono attraversare tanti posti in poco tempo, quello necessario per illudersi di esserci stati. E il nostro caro prete non fece eccezione: il viaggio, infatti, prevedeva la visita di Caravaggio, Sotto il Monte, Bergamo Alta (quella Bassa no!) e, dulcis in fundo, Sirmione. Il tutto con la pretesa di tornare a casa, belli e pimpanti, entro la serata. Ora, è vero che io ero piccolina, però conoscevo già la geografia e sapevo che un itinerario del genere avrebbe significato tanta fatica per non capire niente di ciò che avremmo visto. Pertanto mi misi in viaggio di pessimo umore e, appena giunti in pianura nei pressi di Modena, mi addormentai per svegliarmi direttamente in provincia di Bergamo.
La prima tappa fu Caravaggio: ricordo che scendemmo a moto sostenuto in una piazza rettangolare, della quale nessuno ci rivelò il nome, poi entrammo in fretta in un palazzo o in un chiostro; qui sostammo circa cinque minuti scarsi, dopo di che il parroco, tutto giulivo, c’intimò di salire sul pullman per proseguire il viaggio.
Arrivati a Sotto il Monte, la sosta durò un tempo più umano e ragionevole perché occorreva visitare la casa del papa, entrare in qualche chiesa e darsi alle libagioni, cioè al pranzo. Della casa non ricordo nulla e neppure del pranzo; non so né dove né come mangiammo (l’ho rimossoooo!). Tuttavia, conoscendomi, ho il fortissimo sospetto che rimasi quasi a digiuno, come sempre mi capita quando sono nervosa.
Si sa poi che, in queste occasioni, è d’obbligo farsi fare qualche foto, utile a dimostrare ad amici e parenti che si è stati in gita (la provaaaaa!), manco si fosse raggiunto il Polo Nord con cani e slitta. Ecco che allora alcuni si fecero immortalare accanto alla statua di papa Giovanni; io, invece, nera più che mai e per natura poco incline ai riti di gruppo, rifiutai categoricamente di farmi fotografare. E fui irremovibile.
Terminato il grande spasso a Sotto il Monte, ci precipitammo come furie a Bergamo Alta. Qui ci fermammo su una salita e il prete ci fece subito guardare in basso, oltre un muretto, per dimostrarci che, sì, ciò che dicevano le cronache era vero, ossia Bergamo ha effettivamente una parte alta e una bassa. E così, rinfrancati da questa importante conferma, ripartimmo all’istante.
L’ultima tappa di questa inutile marcia fu Sirmione, un bellissimo paese sul Lago di Garda. Purtroppo, in quel momento, noi non vedemmo bellezza alcuna perché sostammo meno di dieci minuti in un imprecisato viale colmo di gente, caotico come una località della Romagna a Ferragosto, e il lago rimase un miraggio.
A questo punto iniziò l’estenuante viaggio di ritorno. Non ricordo più quanto durò né ricordo cosa dissi quando finalmente mi trovai a casa. Però, conoscendo il mio carattere, so che qualcosa devo aver detto, e qualcosa di forte anche, perché dopo di allora nessuno osò mai più invitarmi a gite del genere.
Immobile e contento
Il cognato di mio nonno, ormai deceduto da molti anni, era un tipo singolare. Il suo divertimento maggiore, nei momenti di riposo dal lavoro, consisteva nello starsene seduto per ore, muto e tranquillo, senza fare altro che pensare e guardare le montagne tutt’intorno. L’idea di fare una gita o di muoversi, anche senza andare troppo lontano, non lo sfiorava neppure.
Una volta un suo conoscente, colpito da tanta fissa immobilità, gli chiese perché di domenica se ne stesse invariabilmente lì, davanti alla porta di casa, senza sentire il bisogno d’allontanarsi un po’. Lui, tranquillo come sempre, rispose più o meno così: “Vedi, tutte queste persone che prendono la macchina, girano e si affannano tanto per andare chissà dove, questa sera dovranno tornare a casa. Dunque faticano per niente”. 😀
Oggi, mentre leggevo un libro sul Medioevo e stavo riflettendo sull’ideale della stabilitas, non ho potuto fare a meno di ripensare alle sue affermazioni. Ecco, se dovessi collocarlo con la fantasia in un’altra epoca storica, sceglierei senza dubbio i secoli dell’Alto Medioevo.
Un insegnamento importante
Avevo dodici anni quando a scuola ci condussero in visita a un cantiere edile. Qui un geometra, padre di un nostro simpatico compagno, ci spiegò le varie fasi di lavorazione per la costruzione di una casa. A un certo punto ci mostrò un garage e, guardandoci con aria estremamente seria, disse:”Non bisogna mai mettere uno scalino davanti al garage, altrimenti la macchina non riesce a passare”. 😕
I miei compagni rimasero tutti concentrati ad ascoltarlo, come se avessero appreso qualcosa di nuovo o d’importante, mentre io dovetti frenarmi per non scoppiare a ridere. Ma il colmo fu che il geometra in questione s’impegnò a ripetere per ben due volte tale imprescindibile insegnamento. 😐