Come ho scritto in altre occasioni, molti anni fa ero solita trascorrere il mese d’agosto nella casa che la mia famiglia aveva in appennino. Soltanto una volta – non ricordo perché – mi trovai in montagna anche a giugno, subito dopo la fine della scuola. E fu per me una novità importante.
Era l’estate nella sua magnificenza, all’inizio del suo percorso: viva, splendente, entusiasta nei suoi colori ma ancora vagamente incerta, attraversata da un’indefinibile, lievissima, affascinante timidezza. Le mattine erano un abbandonarsi completo alla luce, un correre per campi assolati ma anche attraversati da un vento che significava pace, ristoro, salvezza. La gioia era estrema: la città monotona e grigia non esisteva più, i ritmi delle stagioni precedenti erano finalmente dissolti, trasformati in una memoria lontana, quasi un sogno dai contorni troppo sfumati o un fantasma privo di qualsiasi consistenza.
Si entrava così in un mondo di fiaba, un mondo pensato, immaginato, dipinto con i toni della fantasia. Giugno era allora l’amico più prezioso, il sollievo tanto atteso e finalmente arrivato, la via verso la spensieratezza e le gioie di una natura che chiedeva soltanto di rendersi complice, dispensando con inarrestabile generosità le sue tante meraviglie.