Alzarmi in una domenica d’aprile, il silenzio in sottofondo e il cielo inquieto, turbato, sgomento; e sentirmi in pace, invasa da una calma indefinibile ma pura, senza tormenti, senza increspature – un mare calmo, una collina fresca di rugiada.
Frammenti di tranquillità assoluta – e non desiderare altro. Mi sento fortunata ogni volta che accade.
Dopo il tiramisù di ieri, mi è sembrato opportuno continuare con le delizie per la gola, ché certe abitudini sono benedette e guai a perderle. Crema chantilly e fragole per rallegrare la mia domenica:
Fra l’altro, mi viene in mente che non mangio bomboloni da parecchio tempo. Rimedierò senz’altro la prossima settimana, insieme alle frappe, ovvio, altrimenti a che serve il Carnevale?
Passeggiare nel primo pomeriggio di una domenica nebbiosa significa incontrare la quiete assoluta. Ho approfittato di questa giornata di festa per abbracciare novembre in alcune delle strade più belle del quartiere Sant’Agnese vecchia. Ho già mostrato alcuni angoli di questo quartiere la scorsa estate, quando il sole brillava di entusiasmo; adesso, con i colori autunnali, l’atmosfera è cambiata, densa di malinconia, struggente e bellissima.
Finora non ho mai pubblicato le foto di viale Medaglie d’Oro, che è un punto di riferimento di primaria importanza per Sant’Agnese. Il viale collega piazza Manzoni, dove si trova la cosiddetta stazione piccola, e viale Muratori, a ridosso del centro storico. Viale Medaglie d’Oro nacque come strada signorile ed è rimasta tale, nonostante, a quanto sembra, qualche segnale di decadenza. Il suo grande difetto risiede nel traffico insostenibile, che rende molto difficile l’attraversamento dei pedoni; inoltre il viale è caratterizzato da un’alta densità abitativa:
Qui viale Medaglie d’Oro verso la già citata stazione piccola, dove passano i treni che collegano Modena a Sassuolo. La stazione è l’edificio in lontananza, offuscato dalla nebbia:
Qui, invece, il viale in direzione del centro storico:
Via Vedriani è splendida e silenziosa:
Via Bellinzona, che fotografo ora per la prima volta, è una delle strade più famose del quartiere Sant’Agnese, ma appare in affanno perché i segnali di decadenza sono evidenti: alcuni palazzi sono poco curati e la via non è pulitissima. Qui si trovano anche un discount e alcuni negozi cinesi:
Lasciando via Bellinzona e attraversando via Vignolese, si arriva in via Valdrighi, un concentrato di ville e di palazzi di pregio. A sinistra si apre piazzale Riccò, dove sorge la chiesa di Sant’Agnese:
Ed ecco villa Torti, all’angolo con viale Moreali, abbandonata, in disfacimento e a volte vittima di sciacallaggi. Ho pubblicato qualche foto anche lo scorso settembre, ma adesso, con l’atmosfera novembrina, la villa è bellissima nonostante il suo sfacelo senza speranza:
Viale Moreali è uno splendore di ville che si susseguono l’una dopo l’altra, ma lo riprendo solo nell’insieme:
Passo in via Malmusi, elegante e assorta nel grigio di novembre:
Via Malmusi ospitava il più bel cinema di Modena, l’Olympia, una sala davvero elegantissima. Purtroppo il cinema è chiuso da molti anni ed è in rovina:
Di fronte al cinema ho scoperto una villa abbandonata:
Via Malmusi sfocia in viale Trento e Trieste, a ridosso del centro storico:
Attraversato il viale, via Malmusi riprende vita e mostra qualche sua piccola miseria:
Volto le spalle alla spazzatura per immergermi nell’atmosfera della strada, qui ormai alla fine:
Via Malmusi s’incontra con via Andreoli, una delle più belle strade di Sant’Agnese vecchia, a due passi dal centro storico. C’è da dire che, nonostante la via sia tra le più nobili della città, la situazione accanto ai cassonetti non sembra un perfetto modello di decoro:
Proseguiamo lungo la via:
Via Andreoli si dissolve in via Contri:
Qui sorge una delle più belle ville del quartiere:
L’estate è davvero qui, con tutta se stessa. Oggi è una domenica di luce e splendore ovunque, senza sfumature, senza titubanze, senza misteri – nulla bisogna indovinare. I mesi sono passati e questo percorso ha lasciato tracce che ho fermato nel tentativo di cristallizzare il tempo, nell’illusione di dominarlo almeno un poco. I confronti sono allora inevitabili, sono la forma materiale e concreta di questo incessante divenire.
Lo scorso gennaio – il freddo, il fango, la desolazione dell’inverno:
Lo scorso aprile – la dolcezza, la grazia, la benevolenza della primavera:
Oggi, giugno, estate – il trionfo della luce:
Lo stesso sentiero, lo stesso insignificante, minuscolo angolo di mondo trasformato dall’incedere delle stagioni.
E ora, di pomeriggio, sono avvolta dal silenzio, il silenzio profondo delle domeniche estive, una pausa salutare cui mancano la sobria solennità delle domeniche d’inverno e la misteriosa quiete di quelle autunnali.
Ma questo è soltanto l’inizio, perché l’estate è un cammino e una strana incognita. Come sempre avviene quando si apre un nuovo ciclo, ci si sente travolti da un confuso intreccio di speranze e diffidenze, come fosse un enigma irrisolvibile, un groviglio informe. L’estate resterà qui per circa tre mesi, che sono pochi, eppure sembrano un’eternità – doverli attraversare tutti e comprendere e tollerare.
Alla fine diventeremo altro, ciò che ora non immaginiamo – e davvero, davvero sarà una stagione per ricominciare.
La scorsa domenica, sotto un cielo così stinto da evocare frammenti di memorie autunnali, ho fatto una passeggiata lungo il parco che divide viale Muratori da viale Martiri. È uno di quei parchi che io definisco all’antica, perché è grande, pieno di bellissimi alberi e di normali panchine, a differenza di certi orrori sorti più di recente.
Il parco è una sorta di raccordo fra il quartiere Buon Pastore e il centro storico. Io lo raggiungo a piedi in dieci minuti. Qualche foto:
Ore 17:15. Il buio è già arrivato e il freddo è quello pungente, tipicamente invernale nonostante sia novembre. Non amo troppo la domenica, perché m’infonde sempre un persistente senso di malinconia; però preferisco le domeniche autunnali e invernali a quelle delle belle stagioni, perché, nei periodi freddi, si può gioire dell’intimità domestica: avere tempo per stare in casa e dedicarsi ai propri hobby, mentre fuori è freddo e l’oscurità avanza in fretta, è impagabile.
Del week-end amo il sabato perché, con i negozi tutti aperti e la necessità di svolgere varie commissioni, conserva la vivacità degli altri giorni della settimana, ma, a differenza di essi, offre l’occasione per fare cose nuove o diverse dal solito. Ieri mattina ho visitato, in centro storico, la piccola mostra dedicata ad alberi e oggetti di Natale. Nel primo pomeriggio, invece, ho fatto una lunga passeggiata nel quartiere in cui risiedo: l’atmosfera era troppo novembrina per lasciarsela scappare, e così ho zampettato allegramente lungo il viale, per poi tornare a casa attraverso una specie di sentiero-parchetto che unisce l’orrido Viale Don Minzoni a Via Riva del Garda. Tale sentiero-parchetto è per me una novità: durante la mia infanzia, infatti, non esisteva, perché in quella zona c’era un vivaio e altre cose sulle quali non ho mai voluto indagare. Poi sono stata assente da questo quartiere per moltissimi anni, tanto da averlo quasi cancellato dai miei ricordi; ma, dopo essere tornata qui inaspettatamente, ho scoperto che è stato fatto questo parchetto strano, e così ne approfitto quando voglio camminare e starmene da sola.
In definitiva, faccio il giro dell’oca: percorro Viale Buon Pastore fino all’incrocio con il detestabile Viale Don Minzoni; qui svolto a sinistra e, dopo pochi metri, giro ancora a sinistra lungo una stradina che porta al sentiero. Dapprima c’è un piccolo largo con due altalene e qualche panchina; poi il sentiero si restringe e prosegue in mezzo a una fila di case e casette ristrutturate. Il bello della faccenda è che sembra di trovarsi in campagna, e questa sensazione è accentuata durante l’autunno, quando il terreno è fangoso e le foglie cadono a sazietà. I passanti sono rari, soprattutto in questa stagione, e questo suscita l’impressione di trovarsi in un altro mondo. Quando il sentiero sbuca in Via Riva del Garda, è ormai chiaro che non sono in un altro mondo, ma in questo. E allora svolto ancora a sinistra, percorro la strada e poi giro a destra entrando in Via Savani, dove inevitabilmente mi assalgono parecchi ricordi legati all’infanzia e alla prima adolescenza. Da lì prosegue il solito tour: Via Pagliani, il parco, Via Peretti e Via Matilde di Canossa. Si torna a casa, invariabilmente.
Ieri ho fatto questo giro dell’oca per poi rientrare alle 16:30. Due ore dopo mi sono accorta che non avevo comprato una cosa importante per il pranzo della domenica. Così, nonostante la pioggia a dirotto, il buio e il gelo, sono uscita in fretta e sono tornata in centro storico al mercato di Via Albinelli. In soli 35 minuti ho fatto tutto: andata e ritorno a piedi sotto la pioggia battente. E devo ringraziare l’autunno per l’energia che m’infonde. D’estate, col sole a picco sulla zucca e l’afa che non consente di respirare, non riuscirei a fare tanto.
D’altra parte sono un’ottima camminatrice, e neppure il maltempo riesce a fermarmi. E a voi piace camminare? Vi piace fare giri particolari, soltanto “vostri”?
Il vento ci accompagna in questo caldo pomeriggio di giugno – una domenica qualunque, un semplice passaggio fra una settimana e l’altra. Ed è silenzio, il silenzio profondo della giornata festiva, quello in bilico fra la presenza e l’assenza – fra l’esserci e il trovarsi aldilà.
L’ultimo post che ho scritto risale alla scorsa domenica. Ma il mio silenzio di questi ultimi giorni non è tanto dovuto all’assenza di tempo, quanto piuttosto all’emergere di molti pensieri, di un flusso continuo di riflessioni, immagini, suggestioni che non ho voluto trasferire per iscritto. In sintesi, capita che, quando si ha troppo da dire, si scelga di tacere.
In attesa della nuova settimana che sta per cominciare e che mi vedrà all’opera anche su questo blog, auguro a tutti una buona domenica.
Durante l’adolescenza ero tranquilla e non avevo quelli che, in genere, sono definiti grilli per la testa. Non ero scalmanata, non m’interessava fare chissà che esperienze – non le avevo proprio in mente – e per molti versi vivevo nel mondo dei sogni, senza avvertire alcuna necessità di svegliarmi. Tuttavia avevo una smania, sola, unica ma prepotente: a quindici anni, mi misi in testa che era giunto il momento di fare il mio ingresso in una discoteca. Qualcuno potrà giustamente pensare: e allora? Quale sarebbe il problema? Il problema era mio padre, che non ne voleva proprio sapere. Ma aveva torto, aveva torto marcio: le discoteche non sono terribili luoghi di perdizione e poi, come sempre, tutto dipende da noi, da ciò che siamo, dal carattere che abbiamo, dalle nostre predisposizioni e dall’educazione che abbiamo ricevuto. Io sapevo bene che non avevo alcun desiderio strano se non quello di andare in un luogo affollato in cui era possibile ballare.
E fu così che decisi di andare in discoteca senza dirlo a mio padre. Farlo era facile, facilissimo, perché non avevo alcuna intenzione di andarci di sera: a parte il fatto che uscire di sera mi era vietato, a me comunque non interessava. Sarò stata strana, ma non ho mai avvertito il desiderio di uscire di sera in città – solo in montagna mi piaceva farlo – per cui il divieto non mi pesava. No, in discoteca volevo andarci di domenica pomeriggio. Anche allora frequentare la discoteca di domenica pomeriggio era considerato, da molti giovanissimi, una cosa infantile e ridicola: per certuni, essere alla moda ed emancipati significava andare in discoteca soltanto di sera. Ma a me non interessava atteggiarmi a ragazza finto-emancipata, e poi, nell’ambiente da me frequentato – liceo classico, famiglie un po’ tradizionaliste, spesso religiose e, come si suol dire, a volte all’antica – fra le ragazze andare in discoteca di domenica pomeriggio non era ridicolo ma normale.
All’epoca, in questa città il battesimo dei ragazzini avveniva allo Snoopy, nel senso che era la prima discoteca nella quale si entrava. Non so come sia ora, ma a quel tempo era un locale non molto grande e sotto terra: per entrare si scendevano alcune scale, immergendosi in un’atmosfera un po’ ovattata e irreale. Ricordo ancora l’emozione che provai quando, con alcuni amici, organizzammo la nostra piccola spedizione allo Snoopy. Del gruppo facevano parte Andrea, il ragazzino di cui ho già parlato in un altro post, una nostra compagna di ginnasio di nome Isabella – anche lei piena di divieti e coi genitori sempre addosso – e altre tre ragazze che però ora non ricordo più. Una doveva forse essere una mia vicina di casa, che conoscevo fin dall’infanzia e che, in teoria, era la mia migliore amica (per fortuna ormai da anni ridotta al ruolo di ex amica). Io raccontai a mio padre che sarei andata a fare la vasca in centro e poi forse in sala da tè. Tanto sapevo che all’ora di cena sarei stata a casa.
Ricordo che, dopo esserci dati appuntamento davanti a casa di Isabella, col mio gruppetto partimmo rigorosamente a piedi per il mitico Snoopy. Io ero felicissima perché il mio sogno si stava avverando: per la prima volta nella mia vita avrei visto una discoteca. Ma appena entrai allo Snoopy, non provai un’emozione particolare perché mi sembrò di essere a casa, mi sembrò di entrare in un posto conosciuto da sempre. Mi sentii contenta, certo, quasi entusiasta, ma senza trepidazioni. E tutto filò liscio, ovviamente: non era un tremendo luogo di perdizione e non vidi nessuno fare cose strane.
Io, che, come ho scritto sopra, vivevo felicemente nel mondo dei sogni e lì avevo intenzione di restare, trascorsi la mia prima domenica in discoteca a scherzare con le amiche e in particolare con Andrea, che amava ascoltarmi perché si sbellicava per le storielle che raccontavo e le tante battute che inventavo. Naturalmente ballai, sì, ma mi divertii anche a starmene seduta a chiacchierare e osservare tutto quello che vedevo intorno a me. Mi è sempre piaciuto studiare il mondo e i suoi abitanti e lì, in un ambiente tanto circoscritto, si poteva osservare e studiare a sazietà.
Fu un giorno semplice e bellissimo. Semplice perché non feci nulla di bizzarro, bellissimo perché realizzai il mio piccolo sogno. E, da quel momento, trascorsi molte domeniche allo Snoopy fino all’età di diciassette anni, quando fu il momento opportuno per spiccare il volo verso una discoteca in cui, la domenica pomeriggio, andavano ragazzi un po’ più grandi: si chiamava Charlie, era in via Riccoboni e adesso non esiste più.
Ricordo bene la domenica mattina, verso la fine dello scorso novembre, in cui scattai questa e molte altre foto. Era una mattina cupa, una tipica giornata d’autunno inoltrato, in cui il grigio senza speranza dell’atmosfera era interrotto dallo spettacolo dell’agonia della natura. Il silenzio, spezzato a cadenza regolare dal passaggio di automobili, non infondeva malinconia, ma appariva come un segno di rispetto di fronte a qualcosa di tanto grande e misterioso.
C’è una bellezza discreta e modesta in certi giorni d’autunno, una bellezza che riesce a infondere dignità a qualsiasi strada. E dignità ai pensieri, alle memorie. Talvolta l’autunno diventa un invito a rispettare la propria storia, il proprio percorso esistenziale, e ad amarne persino gli errori, le cadute, i dolori, esattamente come le gioie e i successi. Forse perché, se si è predisposti, questa stagione tanto complessa ci pone di fronte alle verità più profonde e al senso di ogni cosa.
Basta guardarsi intorno con attenzione per scoprire poi la commovente vitalità che accompagna questo sfacelo: il giallo e il rosso catturano gli occhi e la mente, si oppongono alla tristezza del cielo, accompagnano con generosità anche i passanti frettolosi e distratti.