La via più giusta

Spesso, su questo blog, ho parlato della magica atmosfera che invade gli ultimi giorni dell’anno, fra Natale e San Silvestro. Forse sono i giorni che preferisco e per tante ragioni. Prima di tutto, si avverte un silenzio particolare nelle strade, nei viali, persino nelle piazze: è la quiete che inevitabilmente segue alla festa e che, nello stesso tempo, preannuncia altre feste e altri riti. Poi c’è questo senso di sospensione che deriva dall’attesa del nuovo anno, un’aspettativa cui non ci si può sottrarre, un appuntamento ineludibile.

Ed è inverno, inverno freddissimo e scuro. Ma, lungo le vie cittadine, restano alcuni segni dell’autunno appena trascorso: certe foglie rosse tenaci, ancora abbracciate ai rami degli alberi, sono un’eredità della stagione precedente e, con la loro tranquilla presenza, spezzano quel confuso intreccio di antracite e marrone cupo che caratterizza la monotona tavolozza dei colori invernali. Del resto, in questo periodo è facile dimenticare il cupo volto dell’inverno, perché è un momento di bilanci, di riflessioni severe, di progetti, di ripensamenti. Così, si oscilla costantemente fra il desiderio di quiete e il desiderio di agire, muoversi in fretta, decidere.

Ma forse occorre altro. Forse occorre soltanto fermarsi, guardare fuori – con calma – oltre la pioggia e la nebbia, e cercare, al di là del vuoto apparente, la via più giusta.

L’attesa

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Attesa. Quanti pensieri agitano la mente? Infiniti, incerti, mutevoli, paralizzanti. Ecco il rischio: l’immobilità, l’incapacità di agire, l’impossibilità di decidere.
Si vive attendendo la sentenza, l’esito definitivo, e, presi dal terrore di scoprire la verità, temendo che essa sia un’altra delusione, un’altra amarezza sconfinata ad aumentare il fardello dei tanti dolori, ci si ferma, si sospende l’azione, si rimanda ciò che dovrebbe essere fatto.
Si prolunga l’attesa, si prolunga l’ansia, il tempo trascorre velocemente, e si trascura la vita. Si vive da spettatori e non da protagonisti. Ma è difficile affrontare l’ennesimo dolore, è opprimente l’idea di una nuova delusione.
Allora ci si vorrebbe sedere, circondati da foglie morte, e non rialzarsi più.