Durante l’adolescenza ero tranquilla e non avevo quelli che, in genere, sono definiti grilli per la testa. Non ero scalmanata, non m’interessava fare chissà che esperienze – non le avevo proprio in mente – e per molti versi vivevo nel mondo dei sogni, senza avvertire alcuna necessità di svegliarmi. Tuttavia avevo una smania, sola, unica ma prepotente: a quindici anni, mi misi in testa che era giunto il momento di fare il mio ingresso in una discoteca. Qualcuno potrà giustamente pensare: e allora? Quale sarebbe il problema? Il problema era mio padre, che non ne voleva proprio sapere. Ma aveva torto, aveva torto marcio: le discoteche non sono terribili luoghi di perdizione e poi, come sempre, tutto dipende da noi, da ciò che siamo, dal carattere che abbiamo, dalle nostre predisposizioni e dall’educazione che abbiamo ricevuto. Io sapevo bene che non avevo alcun desiderio strano se non quello di andare in un luogo affollato in cui era possibile ballare.
E fu così che decisi di andare in discoteca senza dirlo a mio padre. Farlo era facile, facilissimo, perché non avevo alcuna intenzione di andarci di sera: a parte il fatto che uscire di sera mi era vietato, a me comunque non interessava. Sarò stata strana, ma non ho mai avvertito il desiderio di uscire di sera in città – solo in montagna mi piaceva farlo – per cui il divieto non mi pesava. No, in discoteca volevo andarci di domenica pomeriggio. Anche allora frequentare la discoteca di domenica pomeriggio era considerato, da molti giovanissimi, una cosa infantile e ridicola: per certuni, essere alla moda ed emancipati significava andare in discoteca soltanto di sera. Ma a me non interessava atteggiarmi a ragazza finto-emancipata, e poi, nell’ambiente da me frequentato – liceo classico, famiglie un po’ tradizionaliste, spesso religiose e, come si suol dire, a volte all’antica – fra le ragazze andare in discoteca di domenica pomeriggio non era ridicolo ma normale.
All’epoca, in questa città il battesimo dei ragazzini avveniva allo Snoopy, nel senso che era la prima discoteca nella quale si entrava. Non so come sia ora, ma a quel tempo era un locale non molto grande e sotto terra: per entrare si scendevano alcune scale, immergendosi in un’atmosfera un po’ ovattata e irreale. Ricordo ancora l’emozione che provai quando, con alcuni amici, organizzammo la nostra piccola spedizione allo Snoopy. Del gruppo facevano parte Andrea, il ragazzino di cui ho già parlato in un altro post, una nostra compagna di ginnasio di nome Isabella – anche lei piena di divieti e coi genitori sempre addosso – e altre tre ragazze che però ora non ricordo più. Una doveva forse essere una mia vicina di casa, che conoscevo fin dall’infanzia e che, in teoria, era la mia migliore amica (per fortuna ormai da anni ridotta al ruolo di ex amica). Io raccontai a mio padre che sarei andata a fare la vasca in centro e poi forse in sala da tè. Tanto sapevo che all’ora di cena sarei stata a casa.
Ricordo che, dopo esserci dati appuntamento davanti a casa di Isabella, col mio gruppetto partimmo rigorosamente a piedi per il mitico Snoopy. Io ero felicissima perché il mio sogno si stava avverando: per la prima volta nella mia vita avrei visto una discoteca. Ma appena entrai allo Snoopy, non provai un’emozione particolare perché mi sembrò di essere a casa, mi sembrò di entrare in un posto conosciuto da sempre. Mi sentii contenta, certo, quasi entusiasta, ma senza trepidazioni. E tutto filò liscio, ovviamente: non era un tremendo luogo di perdizione e non vidi nessuno fare cose strane.
Io, che, come ho scritto sopra, vivevo felicemente nel mondo dei sogni e lì avevo intenzione di restare, trascorsi la mia prima domenica in discoteca a scherzare con le amiche e in particolare con Andrea, che amava ascoltarmi perché si sbellicava per le storielle che raccontavo e le tante battute che inventavo. Naturalmente ballai, sì, ma mi divertii anche a starmene seduta a chiacchierare e osservare tutto quello che vedevo intorno a me. Mi è sempre piaciuto studiare il mondo e i suoi abitanti e lì, in un ambiente tanto circoscritto, si poteva osservare e studiare a sazietà.
Fu un giorno semplice e bellissimo. Semplice perché non feci nulla di bizzarro, bellissimo perché realizzai il mio piccolo sogno. E, da quel momento, trascorsi molte domeniche allo Snoopy fino all’età di diciassette anni, quando fu il momento opportuno per spiccare il volo verso una discoteca in cui, la domenica pomeriggio, andavano ragazzi un po’ più grandi: si chiamava Charlie, era in via Riccoboni e adesso non esiste più.