Pomeriggio di marzo

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Ore  16:39. Inizio  a  scrivere  questo  post  felicemente  seduta  alla  mia  scrivania, mentre  la  quieta  luminosità  del  pomeriggio  filtra  attraverso  i  vetri  delle  finestre  chiuse. Il  momento  è  magico: è  quel  prezioso, indecifrabile, delicato  intermezzo  tra  una  stagione  e  l’altra, pervaso  da  una  calma  dolcezza  che  invade  lo  spirito  lasciandolo  sereno  e  stupefatto.

Ore  16:54. All’inizio  di  dicembre, a  quest’ora  era  già  buio. Oltre  i  vetri  delle  finestre, era  una  lunga, estenuante  notte, dispensatrice  d’insondabili  misteri  e  custode  di  tanti  segreti. Era  l’introversione  pura, la  necessità  di  ritirarsi  in  se  stessi, il  desiderio  di tacere  e  raccogliersi, l’amore  per  le  stanze  chiuse. Adesso, la  luce  sicura  ma  non  troppo  intensa  è  invece  un  invito  a  pensare  e, nel  contempo, a  uscire, a  raggiungere  il  mondo, a  prendere  ciò  che  può  offrire.

Ore  17:01. Si  pensa  ai  prati, alle  prime  viole, al  primo  grande  amore, a  fuggire  verso  la  spensieratezza. Ma  poi, da  brave  persone  abituate  a  rispettare  i  propri  doveri  e  a  recitare  la  parte  che  ci  è  stata  assegnata, si  torna  ai  consueti  impegni, al  solito  copione. In  attesa  che  la  primavera  dispieghi  tutti  i  suoi  doni.

Venditori da strapazzo

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Ieri, nel  tardo  pomeriggio, sono  stata  costretta  a  uscire  per  fare  alcuni  acquisti. Non  amo  perdere  tempo  nei  negozi  soprattutto  perché  ultimamente  le  tecniche  di  vendita, in  alcuni  esercizi  commerciali, sono  diventate  molto  aggressive  e  al  limite  della  disonestà. Entri, chiedi  una  cosa  e   il  venditore, con  un  sorriso  fintissimo  stampato  sulla  faccia, comincia  a  stordirti  con  inutili  chiacchiere  scandite  molto  rapidamente, utilizzando  una  serie  di trucchetti  retorici  e  di  smorfie  del  volto  utili  a  farti  sentire  pezzente  se  rifiuti  di  comprare  ciò  che  non  ti  serve. In  altri  termini, l’imbonitore  usa  un  copione  fondato  su  alcuni  principi  di  base  della  psicologia, banali  ma  spesso  efficaci  perché  l’acquirente, trovandosi  in  un  ambiente  estraneo, è  quasi  sempre  intimidito  o  almeno  un  po’  imbarazzato: di  fronte  alla  recita  studiata  a  tavolino  dal  venditore,  il  cliente  è  vittima  dell’effetto  sorpresa, che  inevitabilmente  lo  intontisce; pertanto,  se  non  è  abbastanza  scafato,  si  lascia  incantare  dal  profluvio  di  parole   approntato  per  l’occasione.

Ieri  ho  dovuto  sorbirmi  le  chiacchiere  di  un  tizio  che  voleva  farmi  acquistare  mezzo  negozio, mentre  a  me  serviva  soltanto  un  prodotto  per  i  capelli. Peccato  per  lui: ha  parlato  a  lungo, ha  sorriso  all’infinito  dandomi  persino  del  tu  con  fare  assai  amichevole (io, ovviamente, ho  continuato  a  usare  il  lei), ha  finto  d’interessarsi  alla  mia  persona  chiedendomi  nome  e  luogo  di  nascita (eh  sì, gli  importava  parecchio!), ha  voluto  obbligarmi  a  provare  sulla  mano  un  gel  profumato  trascinandomi  fisicamente, con  una  certa  dose  d’arroganza,  verso  un  catino  già  pronto  e  pieno  d’acqua, e  ha  perso  pure  tempo  a  massaggiarmi  la  mano  (odio  i  massaggi). Lo  scopo  di  tutto  ciò  era  cercare  di  convincermi  a  comprare  un  gel  doccia  al  costo  di  trenta  euro, oltre  a  un  disciplinante  per  capelli  al  prezzo  di  venti  euro  e  ad  altre  amenità  che  non  ricordo. Durante  questa  dura  recita, accompagnata  da  tentativi  di  conoscere  le  mie  abitudini  nel  campo  degli  acquisti  di  cosmetici  et  similia, ha  persino  cercato  di  fare  qualche  battuta  ma, su  tale  fronte, è  stato  molto  scarso  e  forse  se  ne  è  accorto, visto  che  ho  riso  poco. Alla  fine  della  sceneggiata, ecco  il  risultato: ho  comprato  solo  quello  che  mi  serviva  e  per  il  quale  ero  entrata  in  negozio. Morale: ha  faticato  invano.

M’infastidisce  il  fatto  che, negli  ultimi  anni, questa  tipologia  di  commercianti  e  commessi  si  sia  moltiplicata  e  imperversi  senza  pietà  in  ogni  luogo. Persone  spesso  anche  molto  maleducate, che  si  arrabbiano  se  non  ti  pieghi  alla  loro  volontà  e  che  pretendono  persino  di  venderti  capi  d’abbigliamento  che  non  sono  della  tua  taglia. Una  volta – una  fra  le  tante – mi  capitò  una  stupida  che  mi  presentò  una  giacca  primaverile  dicendomi  che  si  trattava  di  una  taglia  unica. A  parte  il  fatto  che  le  giacche  di  taglia  unica  non  esistono  o  non  dovrebbero  proprio  esistere (ma  al  peggio  non  c’è  mai  fine, lo  so), le  feci  notare  che  era  troppo  larga  per  me, circa  due  taglie  in  più  rispetto  alla  mia; per  tutta  risposta, la  tizia  continuò  a  ripetere: “Sì, però  è  taglia  unica”. Be’, dopo  pochi  mesi  costei  chiuse  il  negozio  e  cambiò  lavoro. Chissà  perché  non  mi  meravigliai.

L’esperienza  più  assurda, quella  che  mai  avrei  pensato  di  poter  vivere, è  però  legata  a  un  negozio  scarpe. Le  scarpe  che  mi  piacevano  erano  della  mia  misura  ma, ugualmente,  troppo  larghe  e  lunghe. Il  commento  della  commessa  fu: “Sì, ma  poi,  portandole, si  restr…”. E  qui  si  fermò. Si  fermò  perché  la  stava  sparando  troppo  grossa, in  quanto  non  esistono  al  mondo  scarpe  che, una  volta  indossate  e  portate, abbiano  la  capacità  di  restringersi  e  accorciarsi. Ora, io  comprendo tante  cose: nella  vita  bisogna  lavorare  per  mangiare, perciò  bisogna  vendere. Però  non  si  può  scendere  tanto  in  basso, rivoltandosi  in  simili  quantità  di  fango: a  tutto  c’è  un  limite. Esiste  anche  un  concetto  astratto  ma  assai  carino  che  si  chiama  dignità: perché  non  servirsene  ogni  tanto?

Alla fine di gennaio


Ho trascorso circa tre quarti d’ora a cercare immagini di dipinti ottocenteschi, perdendomi fra colori e atmosfere ma senza decidermi. In realtà avevo quasi scelto, quando una voce interiore, saggia e cortese, mi ha consigliato di fermarmi. Arriva sempre un momento in cui occorre fermarsi per riordinare le idee, recuperare la necessaria lucidità e attendere che le ombre, almeno quelle più cupe, svaniscano.

Queste giornate di fine gennaio sono sempre freddissime. Tuttavia, sembra che il gelo non impedisca ad alcuni di uscire a quest’ora: dalla strada, infatti, arrivano grida e risate. Il divertimento del venerdì sera prosegue nonostante l’inverno e il copione è sempre lo stesso. Assistendo al ripetersi dei medesimi riti, sulla medesima via e stagione dopo stagione, si ha l’impressione che nulla cambi mai. Eppure qualcosa dovrà mutare.

Gennaio se ne sta andando, terribile come sempre, col suo volto severo e gli occhi duri di chi non riesce a provare alcuna pietà. Ma quasi non l’ho vissuto perché l’ho sentito fuggire via in fretta, e l’ho guardato con freddo distacco, addirittura con una punta di disprezzo. Ormai neppure gennaio riesce a colpirmi. Questa è la prova che gli anni non sono trascorsi invano.

Prepararsi all’inverno


Novembre si congeda piangendo tutte le sue lacrime, devastato da una tristezza incontenibile. Ma l’autunno, quasi sempre fedele al suo copione, non potrebbe terminare in altro modo.

Ora bisogna prepararsi all’inverno, a giornate rigide e tetre, a lunghe ore prive di luce. Ma non è così difficile, basta volerlo: si tratta solo d’inventare sfumature di rosso da sovrapporre all’oscurità del cielo. Rosso d’emozione, rosso di passione, rosso come il fuoco in un caminetto, che, se alimentato con costanza e dedizione, arde senza spegnersi.
Sono soltanto accorgimenti, piccolissimi gesti quasi invisibili ai più. Ma fanno la differenza.

Nel gran teatro dell’esistenza


Queste giornate col tempo variabile e un po’ capriccioso, ma senza fastidiosi e cupi eccessi, mi affascinano e mi regalano una serenità che mi stupisce. Ma spiegarne le ragioni non è facile sebbene sia piacevole, per me, tentare di farlo, essendo sempre incline a chiedermi le cause di ogni cosa, di ogni pensiero, di ogni sia pur minima sfumatura emotiva.

Guardo fuori dalla finestra il cielo inquieto, ma nel contempo sorridente, e sono serena. Guardo la strada quasi vuota del primo pomeriggio, sento che il freddo se n’è andato definitivamente, penso che potrebbe piovere e sono serena. Forse sono il mutamento e il passaggio a regalarmi queste sensazioni: in fondo le stagioni sono meravigliose al loro inizio, quando spezzano una lunga consuetudine e offrono doni che avevamo quasi dimenticato.

Ma forse queste giornate mi rasserenano anche perché, in esse, vedo una piccola parte di me, quella sfasatura del mio carattere con cui convivo da sempre e che perciò mi è tanto familiare. Qualcuno direbbe che sono strana perché, proprio come la primavera, non riesco a prendermi troppo sul serio. Dirò di più: fatico a comprendere chi è del tutto privo di autoironia, chi tratta se stesso con sussiego e si ritiene insostituibile e prezioso in ogni istante della vita.

Io devo ridere di me stessa e di tutto quello che faccio almeno una volta al giorno, altrimenti mi sento soffocare. Mentre sto scrivendo questo post, ad esempio, ho molti libri accanto a me: due dizionari di filosofia, due manuali, una monografia su Agostino e altro ancora. Li guardo con amore, l’ammetto, ma anche con un sorriso un po’ malizioso perché mi sento sempre, persino di fronte alle cose che più amo, come quei bambini che mettono un dito nella marmellata o nella torta di panna quando gli adulti non se ne accorgono, e ovviamente sono più felici di averla fatta franca che di aver mangiato i dolci.

Ecco perché ho scritto che sono attratta da giornate come questa: io forse assomiglio alla primavera che dapprima s’impegna compiendo con diligenza il proprio amato dovere, ma poi, d’improvviso, si stanca e dice: “Eh no, adesso basta! Adesso mi riposo, fine del copione che mi è stato assegnato. E vi mando un po’ di vento, di pioggia e di nuvole grigie. Per un po’, non sarò ciò che vi aspettate e che pretendete”.

Nel grande teatro dell’esistenza non siamo altro che attori chiamati d’improvviso a svolgere una recita. Ciascuno di noi è stato gettato nel mondo senza chiederlo – nessuno, infatti, chiede di nascere e perciò procreare è un’enorme responsabilità – , ciascuno di noi è stato gettato in una determinata situazione familiare, sociale, culturale e ambientale: questo è il copione che ci viene assegnato e che non scegliamo. Non resta allora che recitarlo cercando, quando si può, di modificarlo, di apportarvi le giuste correzioni, d’integrarlo e di adattarsi a esso, sopportando l’insuperabile ingiustizia per la quale i copioni assegnati sono e saranno sempre molto eterogenei per qualità, penalizzando eccessivamente alcuni e gratificando fin troppo altri.

Data la situazione, non si vede perché ci si debba prendere troppo sul serio.