
Queste giornate col tempo variabile e un po’ capriccioso, ma senza fastidiosi e cupi eccessi, mi affascinano e mi regalano una serenità che mi stupisce. Ma spiegarne le ragioni non è facile sebbene sia piacevole, per me, tentare di farlo, essendo sempre incline a chiedermi le cause di ogni cosa, di ogni pensiero, di ogni sia pur minima sfumatura emotiva.
Guardo fuori dalla finestra il cielo inquieto, ma nel contempo sorridente, e sono serena. Guardo la strada quasi vuota del primo pomeriggio, sento che il freddo se n’è andato definitivamente, penso che potrebbe piovere e sono serena. Forse sono il mutamento e il passaggio a regalarmi queste sensazioni: in fondo le stagioni sono meravigliose al loro inizio, quando spezzano una lunga consuetudine e offrono doni che avevamo quasi dimenticato.
Ma forse queste giornate mi rasserenano anche perché, in esse, vedo una piccola parte di me, quella sfasatura del mio carattere con cui convivo da sempre e che perciò mi è tanto familiare. Qualcuno direbbe che sono strana perché, proprio come la primavera, non riesco a prendermi troppo sul serio. Dirò di più: fatico a comprendere chi è del tutto privo di autoironia, chi tratta se stesso con sussiego e si ritiene insostituibile e prezioso in ogni istante della vita.
Io devo ridere di me stessa e di tutto quello che faccio almeno una volta al giorno, altrimenti mi sento soffocare. Mentre sto scrivendo questo post, ad esempio, ho molti libri accanto a me: due dizionari di filosofia, due manuali, una monografia su Agostino e altro ancora. Li guardo con amore, l’ammetto, ma anche con un sorriso un po’ malizioso perché mi sento sempre, persino di fronte alle cose che più amo, come quei bambini che mettono un dito nella marmellata o nella torta di panna quando gli adulti non se ne accorgono, e ovviamente sono più felici di averla fatta franca che di aver mangiato i dolci.
Ecco perché ho scritto che sono attratta da giornate come questa: io forse assomiglio alla primavera che dapprima s’impegna compiendo con diligenza il proprio amato dovere, ma poi, d’improvviso, si stanca e dice: “Eh no, adesso basta! Adesso mi riposo, fine del copione che mi è stato assegnato. E vi mando un po’ di vento, di pioggia e di nuvole grigie. Per un po’, non sarò ciò che vi aspettate e che pretendete”.
Nel grande teatro dell’esistenza non siamo altro che attori chiamati d’improvviso a svolgere una recita. Ciascuno di noi è stato gettato nel mondo senza chiederlo – nessuno, infatti, chiede di nascere e perciò procreare è un’enorme responsabilità – , ciascuno di noi è stato gettato in una determinata situazione familiare, sociale, culturale e ambientale: questo è il copione che ci viene assegnato e che non scegliamo. Non resta allora che recitarlo cercando, quando si può, di modificarlo, di apportarvi le giuste correzioni, d’integrarlo e di adattarsi a esso, sopportando l’insuperabile ingiustizia per la quale i copioni assegnati sono e saranno sempre molto eterogenei per qualità, penalizzando eccessivamente alcuni e gratificando fin troppo altri.
Data la situazione, non si vede perché ci si debba prendere troppo sul serio.