Un tempo esisteva la Sip, incontrastata dea delle comunicazioni, la sola a permetterci di tessere la fragile trama delle relazioni interpersonali a distanza. Anche per questo l’amavamo molto, perché sapevamo che, senza di lei, non avremmo potuto raggiungere amici e parenti, vicini o lontani che fossero. Le tariffe per chiamare erano alte e le interurbane costavano parecchio, eppure rispettavamo ugualmente la cara, vecchia Sip.
Poi è arrivata la rivoluzione delle telecomunicazioni e, nell’arco di pochi anni, sono comparse numerose compagnie telefoniche impegnate a inventare mirabolanti offerte. La chiamano competizione e presenza sul mercato. Nel frattempo la vecchia Sip è diventata Telecom e poi Tim, ed è ormai inserita a pieno titolo nel vortice furibondo dei piani tariffari, dei giga, degli sconti e delle imperdibili offerte insieme a Wind, Vodafone, Fastweb e affini.
Quando sento parlare di offerte mi assalgono i sudori freddi, perché da lì alla fregatura è un passo soltanto, un piccolo gradino. Il prezzo psicologico mi è ormai insopportabile, come ad esempio quel 24,99 euro per la fibra ottica che vuole convincerci di pagare 24, mentre in realtà è 25, eccome se lo è. La strategia, del resto, è quella di tutti i supermercati, che traboccano di prezzi a due cifre con i 99 centesimi finali. Posso ammettere tutta la mia antipatia e la mia impazienza? Posso dire che sono stanca di questi mezzucci, pur sapendo che tutto continuerà allo stesso modo?
E poi il famosissimo 24,99 euro tutto compreso non è mai tale, ovviamente. Guarda caso, bisogna sempre aggiungerci circa 5 euro per le chiamate e poi altri 5 per l’acquisto o il noleggio del modem e poi attenzione, attenzione ancora, perché il prezzo può alzarsi ulteriormente per qualche altro servizio, magari non richiesto.
Ma non finisce qui, no. Sarebbe troppa grazia firmare un contratto e starsene in pace per qualche anno. La pace non ci è concessa perché esistono i call center. E allora il telefono squilla tutti i giorni o quasi e, negli ultimi tempi, invece di sentire un essere umano all’altro capo del filo, alle orecchie giunge una voce registrata che ha il coraggio di dirti: “Ciao, sono Sara dellaTim“, e tu butti giù la cornetta imprecando come se non ci fosse un domani.
Diciamola, questa benedetta verità: è stalking. E allora ogni tanto rimpiango persino i tempi della vecchia Sip, quando almeno questo strazio costante ci era risparmiato.
Ai miei tempi, quand’ero adolescente, l’estate non era soltanto la stagione della spensieratezza, ma anche il momento magico in cui scrivere e ricevere quegli oggetti ormai obsoleti chiamati cartoline. I cellulari e gli smartcosi non esistevano, l’ormai mitico Uozzappa non era neppure nei nostri sogni e telefonare col fisso o nelle apposite cabine costava parecchio; così, per tutti questi motivi, le comunicazioni erano lente, e tessere le fragili trame delle relazioni interpersonali, cercando di mantenerle in ogni circostanza, prevedeva la scrittura di lettere e di cartoline.
Durante l’estate, le cartoline erano un modo veloce e pratico per conservare un flebile legame con amici e parenti mentre ci si trovava in vacanza. Non sempre si scrivevano per vero affetto: a volte mandare cartoline era quasi un dovere, altre volte era un modo per far sapere che sì, si era in vacanza, e guarda un po’ in che bel posto mi trovo, tiè! Però, a differenza di quanto accade ora con Uozzappa et similia, l’invio delle cartoline richiedeva un piccolo impegno, un certo sforzo, e allora si tendeva a selezionare le persone cui mandarle: difficilmente si perdeva tempo a scriverle a qualcuno di cui nulla c’importava o che, peggio, ci era antipatico. Bisognava, infatti, entrare in un negozio, scegliere le cartoline, scrivere un pensiero e l’indirizzo esatto, e poi comprare i francobolli per farle giungere a destinazione, dopo averle infilate nella meravigliosa cassetta postale rossa fiammante.
Non bisogna sottovalutare la rilevanza di queste cassette, perché, oltre all’ovvia funzione pratica, svolgevano anche un importante ruolo sul piano psicologico: le cassette postali, infatti, erano la certezza visibile e tangibile della presenza dello Stato in luoghi sperduti e impervi. Incontrarle in un remoto paesino di montagna o in una piccola località di mare confinata a casa di Dio, infondeva un senso di sicurezza, perché erano il segno inconfondibile della nostra appartenenza a un’ampia comunità. Quelle cassette lucide e rosse ci dicevano che non eravamo soli, nonostante ci trovassimo al Lido delle Zanzare o a Bosco Tre Case.
Inviare un cartolina comportava, come si è visto, un certo impegno e un piccolo investimento economico, poche cose, è vero, ma impegnative se paragonate al convulso invio d’immagini via Uozzappa, dove c’è un tasto che consente di mandare rapidamente la stessa foto a tutti i propri contatti, fra cui il conoscente del quale a stento si ricorda il nome e il presunto amico conosciuto su Facebook, di cui s’ignora tutto ma non importa, perché ciò che conta è avere un buon numero di contatti e inviare. Ormai siamo in preda alla mistica dell’invio.
Le cartoline erano, ai miei tempi, un complemento indispensabile dell’estate e si trovavano ovunque, anche in paesini sconosciuti. La mia casa in appennino, ad esempio, era in una piccola frazione a tre chilometri dal Comune principale della zona. Eppure, oltre a un bel campo sportivo grande (ci si giocava anche il torneo di calcio dell’appennino), a un parco con le altalene e a una bella chiesa con annesso campanile, nella mia frazione c’erano anche due negozi di alimentari e altri prodotti, fra cui le cartoline, che immortalavano quel luogo regalandogli la dignità di paese da ricordare. Così, fra due etti di prosciutto e un chilo di pane, si poteva decidere quale cartolina mandare fra quelle presenti, perché c’era persino una discreta possibilità di scelta. Quasi superfluo aggiungere che, nella mia frazioncina, non mancava una bella cassetta postale.
All’epoca molte persone conservavano le cartoline che ricevevano per rileggerle, guardarle e parlare di chi le aveva inviate. Erano segni concreti delle nostre relazioni sociali e preziosi ricordi, perché lasciavano una traccia di chi era lontano e di chi aveva abbandonato per sempre questa valle di lacrime. Il fatto che fossero scritte a mano conferiva alle cartoline un fascino che nessun messaggio elettronico potrà mai avere. La calligrafia, infatti, è un’espressione della propria individualità, perché nessuna calligrafia può essere identica a un’altra; perciò rileggere poche parole vergate a mano su una vecchia cartolina rievoca con forza particolare l’immagine di chi l’ha scritta.
Chi non ha vissuto quei tempi non può comprendere cosa significhi una piccola cartolina e quale valore affettivo possa avere. Certo, si possono rileggere anche le email, si possono guardare più volte le immagini ricevute sullo smartphone e le foto su Instagram; però, toccare con le mani una cartolina e osservare la calligrafia di chi magari non c’è più, è un’esperienza che coinvolge ricordi e affetti con una profondità sconosciuta ai nuovi mezzi di comunicazione. Che poi questi siano utilissimi e piacevoli è cosa che non metto in dubbio, altrimenti non scriverei qui; ma chi ha conosciuto il tempo delle cartoline sa che esse restano, per alcuni versi, insostituibili.
Il silenzio è un atto di responsabilità, un intervallo necessario per riflettere e poi, dopo la riflessione, esprimere parole sensate, evitando di rispondere alle sollecitazioni circostanti immediatamente, di pancia, seguendo i propri istinti.
In quest’epoca di comunicazioni veloci, istantanee, costanti, in quest’epoca dominata dall’irrefrenabile vociare dei social, emerge con forza, in tutta la sua straordinaria potenza, il valore del silenzio come espressione di saggezza, di umanità e di rispetto verso gli altri.
Sono molto contenta delle infinite possibilità che ci offrono internet e le comunicazioni veloci in genere. Però ogni tanto mi assale il desiderio di tornare indietro e di vivere per qualche giorno come si viveva quando adsl, cellulari e affini non esistevano. Mi piacerebbe potermi ritrovare – che so – negli anni Ottanta del secolo scorso, quando bisognava cercarsi una cabina telefonica per chiamare qualcuno se si era fuori casa e quando tutte le comunicazioni erano più lente.
Se esistesse una macchina del tempo capace di trasportarci indietro, ogni tanto farei una puntatina nel passato privo di internet. Come una specie di temporanea vacanza dello spirito dopo l’orgia delle comunicazioni continue e rapidissime. Naturalmente si tratterebbe solo di brevissimi intervalli, perché preferisco le tante comodità che ci sta offrendo ora la tecnologia; ma sarebbe bello poter ‘staccare’ ogni tanto e poter tornare a vivere certe emozioni.
Se è vero, infatti, che comunicare tanto facilmente ha migliorato la nostra esistenza sotto molti punti di vista, è altrettanto vero che sono venute meno certe attese che, in alcuni casi, avevano un loro fascino: aspettare una lettera, ad esempio, significava coltivare ansie, speranze e tutte quelle emozioni che soltanto la mancanza di immediatezza può offrire. Anche telefonare ad amici e parenti lontani aveva il sapore di un piccolo ‘evento’: le telefonate interurbane costavano molto, non si facevano tutti i giorni e quindi sentirsi per telefono a volte acquistava la fisionomia di un fatto importante, di un piccolo rito colmo di significati.
E che dire delle ‘difficoltà’ di comunicare con amiche e amici? In genere, nelle case c’era un unico telefono. Se si voleva dire qualcosa di rilevante e di segreto all’amica o all’amico del cuore bisognava scriversi, scambiarsi biglietti o conversare in privato e trovare il momento giusto per farlo. Anche darsi un appuntamento era un po’ meno immediato rispetto a oggi, e ciò conferiva un fascino particolare all’arte di coltivare relazioni, proprio perché tutto era sempre accompagnato dall’attesa e quindi da momenti di sospensione o, meglio, da mistero. Ecco, questo è il nucleo della questione: un certo alone di mistero conferisce sempre attrattiva a ciò che si aspetta, si desidera e si fa, mentre la possibilità di avere tutto e subito, cioè la totale assenza di ostacoli, tende a banalizzare pensieri e azioni e può essere fonte di noia. Insomma, quando si è sazi il cibo dà la nausea.
Ma è un discorso per anime un po’ romantiche – me ne rendo conto – e quindi non può essere approvato da tutti.