
Chi se lo ricorda? Io sì, l’ammetto. Per un ventenne si tratta di un oggetto quasi misterioso o di una specie di reperto archeologico, da guardare con curiosità e forse un pizzico di compatimento. Per me e per molte altre persone, invece, appartiene all’universo delle memorie e rievoca immagini legate all’infanzia – emozioni, gioie e sofferenze.
Quel telefono dell’ormai mitica SIP era pesante e abbastanza grosso da farsi notare. Nelle case, la sua esistenza si svolgeva soprattutto nei corridoi e lungo gli ingressi, spazi purtroppo quasi inesistenti nelle abitazioni attuali. Proprio lì, in quelle aree di passaggio, il telefono grigio con grossa rotella incorporata assumeva un ruolo fondamentale nella nostra vita quotidiana: era l’unico mezzo per comunicare a voce con le persone lontane. Ben presto, a casa mia fu sostituito con un telefono fisso a tasti, che salutammo come segno di grande progresso nel campo delle comunicazioni.
Ma con un telefono fisso in corridoio non sempre ci sentivamo liberi e libere di parlare, perché chi era in casa con noi poteva ascoltare tutto. Così si poneva il problema di trovare soluzioni “creative” per nascondere alcune cose ai nostri genitori – appuntamenti, flirt, piccoli, innocui segreti considerati di notevolissima importanza. A soccorrerci erano spesso le cabine telefoniche, comodissime in un’epoca in cui non erano diffusi i cellulari. Lì potevamo telefonare e dire tutto ciò che avevamo in mente, senza che i nostri familiari ci ascoltassero.
Quando lasciai via Savani e mi trasferii ad abitare in centro storico, la nuova casa era talmente grande che un solo telefono fisso non poteva bastare; così, ebbi il mio bel telefono in camera, che mi garantiva un certo grado di privacy. Poi arrivarono in fretta i cellulari e il modo di comunicare cambiò per sempre, segnando una brusca rottura con il passato, un autentico punto di non ritorno.
Ogni tanto, quando ripenso all’infanzia, mi sovviene il ricordo del telefono grigio con la rotella e mi sembra di appartenere davvero a un altro mondo, quasi a un’epoca remota. Eppure mi piace sentirmi un po’ obsoleta, perché ciò implica una lieve forma di distacco rispetto al presente e al mondo, un piacevole senso di non appartenenza che, a volte, mi regala pace e armonia in un modo che non so neppure spiegare.