
Del primo anno di università, resta per me indimenticabile l’esperienza come pendolare Modena-Bologna, che significava percorrere, sia all’andata sia al ritorno, 37 chilometri in linea ferroviaria. Nonostante la breve distanza, i miei viaggi quotidiani verso Bologna si configuravano spesso come autentiche avventure. Viaggiare in Italia, infatti, non è mai facile a causa dei ritardi cronici dei treni e di disorganizzazioni di vario genere, che a volte sfociano in situazioni surreali. Essendo poi io una maniaca della puntualità, ho vissuto e vivo sempre malissimo ogni ritardo dei mezzi pubblici. Pertanto le mie odissee verso Bologna mi sono rimaste impresse nel cuore e nella mente, e credo che così sarà fino alla fine dei miei giorni.
Erano due i treni che costituivano il mio riferimento mattutino: quello delle 7:32 (o 7:30) e quello delle 8:02 (o 8:04, non ricordo). Il primo era un tipico treno per pendolari che si formava proprio a Modena. Ciò potrebbe far pensare che, per noi, fosse facile salirvi e sedere in tutta tranquillità. Sbagliato. Nonostante quella fosse l’ora di punta, i vagoni del treno erano soltanto tre. A quell’ora, era pieno di studenti e lavoratori che partivano non solo da Modena, ma anche dalla provincia; basti pensare al fatto che il treno proveniente da Carpi scaricava una massa di persone in buona parte dirette proprio a Bologna. Si comprende allora quanto fosse ridicolo e irrispettoso far partire un treno, persino brutto e vecchio, con tre miseri vagoni.
In una situazione di questo tipo, si verificava una sorta di lotta all’ultimo sangue per salire in fretta sul treno e accaparrarsi un posto a sedere. Io, purtroppo, non ero brava in questi frangenti, perché, poco amante della confusione e troppo piena di scrupoli, non mi trovavo a mio agio a spingere e ad aprirmi improbabili varchi tra la folla, per cui viaggiavo quasi sempre in piedi. E non era piacevole, nonostante il percorso durasse solo venti minuti: venti minuti in piedi, ammassati come bestie gli uni contro gli altri e di prima mattina, non è una situazione entusiasmante. Le poche volte in cui riuscivo a sedermi erano quelle in cui viaggiavo con una mia amica, una ragazza timida e in genere molto tranquilla che però – non si sa per quale recondito motivo – era diventata una piccola furia quando si trattava di dover trovare un posto a sedere su quell’orrido treno: prima di salire, si girava verso di me, mi diceva “Forza!” con volto autoritario e severo, spingeva senza pietà i soggetti che le stavano davanti, compresi uomini altissimi, e, con sguardo truce, riusciva ad aprirsi una via per fiondarsi in fretta sui posti liberi, occupandone due con i libri.
Quel trenino-giocattolo aveva l’ingrato compito di fermarsi anche, fra Modena e Bologna, a Castelfranco, Samoggia, Anzola e Lavino, dove doveva raccattare altri poveri disgraziati diretti nel capoluogo della regione. In queste situazioni, anche gli esseri umani migliori regrediscono a uno stadio simil-primitivo, stile cavernicoli, e cominciano a fissare i propri simili con le facce ringhianti e minacciose: era quello che parecchi di noi, stipati come buoi mandati al macello, facevano guardando fuori, attraverso i finestrini, i poveretti che, a Castelfranco, Samoggia e compagnia cantante, volevano salire. Per noi costoro erano odiosi nemici, perché avrebbero riempito ulteriormente un treno già colmo di esseri viventi, peraltro arrabbiatissimi. D’altra parte, anche loro avevano il pieno diritto di salire e perciò salivano, ma con enorme difficoltà perché nel treno non c’era più posto per nessuno. E così si ripartiva, ancora più ammassati di prima e già stanchi prima di arrivare.
Quando finalmente si entrava nella stazione di Bologna, si tirava un sospiro di sollievo, pregustando il fausto momento in cui si sarebbero aperte le porte del treno e saremmo volati verso un’apparente libertà. Peccato però che, a volte, il trenino si fermasse proprio all’inizio della stazione di Bologna per dare la precedenza al mitico Pendolino Roma-Milano. Ora, se c’è una cosa frustrante fino all’inverosimile è aver raggiunto la propria agognata destinazione e, a pochi passi dal traguardo, doversi fermare per dieci lunghissimi minuti. Credo di non essermi mai sentita tanto jellata come in quei momenti.
Passiamo ora al treno delle 8:02, che in genere prendevo quando avevo lezione alle dieci della mattina. Il treno arrivava da Milano e, la prima volta che lo vidi, ebbi un sussulto e avvertii i sudori freddi: entrò in stazione con una lentezza esasperante, quasi vergognandosi di se stesso, cigolando senza ritegno come un ferro vecchio e tutto traballante, come se faticasse a mantenersi sulle rotaie. E di ferro vecchio, in verità, si trattava, perché già allora era un treno obsoleto e con vagoni muniti di scompartimenti sporchi e maleodoranti. Insomma, vedendolo ci si chiedeva per quale incomprensibile motivo fosse riuscito a raggiungere Modena partendo da Milano, e che cosa avessimo fatto di male noi alla regione Lombardia per meritare un trattamento simile. L’unico vantaggio di quel treno da profughi era la possibilità di sedersi, ma il viaggio verso Bologna era sempre tutto uno scossone perché il ferro vecchio traballava senza pietà, e qualche volta si aveva la sensazione che avrebbe perso i pezzi nei pressi di Samoggia, lasciandoci a terra nella campagna desolata e nebbiosa.
C’è da dire però che, una volta giunta a Bologna, cercavo di dimenticare questi assurdi viaggi immergendomi nella vita cittadina e percorrendo, quasi festante, i soliti venti minuti di tragitto per raggiungere l’università. Prima di entrare nelle sacre aule, però, mi consolavo facendo colazione in Piazza Verdi. Beata gioventù!