È che non vorresti uscire, non vorresti perdere questo spettacolo. L’autunno sa rapirti come niente e nessuno potranno mai. Ti bastano una finestra, una soltanto, e gli alberi sotto a farti compagnia. E quei sussurri e quei ricordi, tutti i tremori – il tuo tempo che fugge via.
L’autunno è uno stato d’animo, tu che comprendi ogni sfumatura, ogni piccolo gesto, e non sai che fartene delle chiacchiere, dei sorrisi finti, dei discorsi che sono pura apparenza. L’autunno è la verità – sai dove stai andando, e quel sentiero misterioso, e che nessuno ti molesti. L’autunno è il calore dei ricordi, muti – e non parlarne.
Io sono come le foglie che cadono in silenzio, come il vento che s’alza d’improvviso, come la pioggia che ti costringe a rientrare in fretta. Mi bastano una stanza e i colori dell’arcobaleno.
E tu non disturbarmi. Non so che farmene della tua estate torrida.
Io sono novembre e busso alla tua porta. Sono l’essenza della vita, quel dissolversi che ti sgomenta, tutto quello che non vuoi vedere – e chiudi gli occhi per non capire. Io sono novembre, ricco di brividi e di colori, il tuo tormento e la tua dannazione. Ma ti regalo lo spettacolo più bello, le foglie al vento, gli alberi rossi e gialli, i tuoi ricordi, le nebbie fitte del mattino.
Io sono novembre, e ti sorreggo e ti consolo. Sono il passato che irrompe nel presente, la vita tua che si aggroviglia, l’infanzia che ritorna, la nostalgia che non sai raccontare. Guardami, guardami con attenzione; e dopo, con molta calma, lasciami andare.
Le giornate sono un incanto, un contrasto di toni che si armonizzano e non si sa come: freddo, caldo, nebbia, sole che litigano e poi s’abbracciano – la pace torna sempre, è il miracolo di ottobre.
E poi stanotte torna l’ora solare. Quando succede, mi sento una bimbetta tutta emozionata, quasi fosse un passaggio epocale, un evento senza pari. La verità è che aspetto la sera, il buio rarefatto dell’introspezione, l’ambigua calma dell’oscurità autunnale; e poi le foglie che cadono all’imbrunire, avvertirne la presenza muta, il morire lento degli alberi – che non è mai la fine.
La giornata è caldissima ma vestita di puro splendore. Non si può fare a meno di esultare per le tinte e i giochi di luce fra gli alberi:
Sono contenta senza ragione apparente, senza un motivo cui aggrapparmi, senza giustificazioni. Felice e basta, forse la forma più bella di esultanza o la più spericolata, irrazionale, bizzarra allegria che possa capitare.
Le cicale cantano ininterrottamente, le persone camminano adagio, il tempo sembra quasi arrestarsi e, in alcuni momenti, penso all’autunno che verrà. Ma intanto lascio che l’estate mi abbracci e mi faccia divertire e sognare con i suoi colori:
Cambiano in fretta, i colori. Basta affacciarsi a una finestra per cogliere tutta la fatica del passaggio, le tracce dell’inverno che non vogliono sparire, i rami spogli, quel marrone freddo che racconta storie di morte. Eppure, proprio lì accanto, altri colori, altri umori, la vita che ricomincia:
Basta uscire di mattina, il sole ancora incerto, il giorno che stenta a cominciare; ma il rosa e il bianco della primavera ci attendono per accompagnarci lungo il cammino:
E ogni anno è sempre la prima volta, sempre la stessa emozione, quel ricominciare fra incertezze e lampi di splendore, e quelle tinte fresche e generose – correre incontro al mondo con entusiasmo:
Adesso infuria il vento e ci costringe alla resa, chiusi in casa, in attesa che finisca. Ma si continua a sognare, a intravedere i giorni che saranno, l’azzurro sempre più intenso e il mistero della pioggia sottile sul verde brillante delle foglie – e il non sapere dove siamo, e il tornare indietro, e chiudersi in casa in attesa di tempi migliori.
Succede così, a febbraio. Compaiono alcuni giorni luminosi, presagi della bella stagione – e il freddo si attenua un poco; ma gli scheletri degli alberi spogli, e il marrone cupo e il grigio come unici colori intorno, creano una dissonanza, una frattura. Così febbraio sprofonda nell’inconsistenza, non è inverno e non è primavera – senza carattere, senza identità.
Spero ancora in qualche mattina di nebbia fitta e forse persino nella neve.
Sono uscita in fretta, nel primo pomeriggio – il cielo terso a mitigare il freddo di gennaio, e la calma distratta di questa giornata lenta, che chiude il ciclo della settimana.
E sono arrivata qui, al parco di Villa Ombrosa, un lungo viale muto a guardarmi con benevolenza, nonostante gli alberi esausti e il dormire dei rami in attesa di tempi migliori:
Come per magia – che cosa buffa! – ho incontrato subito un piccolo felino, grigia e un po’ marrone e bianca la sua morbida pelliccia; ed è nato un bizzarro dialogo umangattesco, fatto di lunghi sguardi e goffi tentativi di contatto e diffidenza mista a curiosità – quel volersi sfiorare senza riuscirci del tutto:
Era vecchietta, la gattina, bellissima, col pelo un po’ arruffato dall’età e qualche piccolo problema a respirare. Una micetta di famiglia, si vedeva, anche se libera di divertirsi dentro al parco. L’ho lasciata accoccolare sul tavolo al sole, ché di afferrare qualche raggio di vita aveva un gran bisogno, e di nutrirsi di calore, quello che troppo spesso manca, a noi e a loro:
Poi mi ha guardato dolcissima e affettuosa, sebbene un po’ impaurita. L’ho vista strofinare il bel visetto sulla panca e fermarsi in un’attesa misteriosa:
Dopo si è acquattata come soltanto i gatti sanno fare, felice della mia presenza ma pronta a fuggire in fretta, al minimo scricchiolio di foglia morta. E allora l’ho lasciata in pace a sopportare l’inverno della vita, lei, la gatta, con i suoi segreti felini e quella calma quasi ultraterrena che di paradiso parla a tratti:
C’era persino un’atmosfera quasi dorata, come se gennaio non fosse tale, come se novembre fosse tornato entrando furtivo dal cancello aperto – voleva incontrarmi, desidero pensarlo:
Per un momento – quasi eterno, quel momento – sono diventata anch’io una gatta, ferma a lasciarmi accarezzare dal sole, immobile in quel piccolo angolo di alberi e di foglie secche. Finché ho capito che dovevo tornare, che da quei cancelli dovevo uscire, che la mia via era quella verso casa. E ho ripreso la strada, via Sanremo e poi via La Spezia, per arrivare dopo poco in un parco tutto differente, senza cancelli e senza reti – non ama nascondersi, lui, e del silenzio non sa che farsene:
Ed eccolo, il parco della Resistenza a gennaio, dominato dagli umori invernali. Se ripenso alla fine di ottobre, al rosso fuoco sui filari, alle foglie screziate di toni caldi e audaci, mi sento scossa, quasi tramortita. Ma questo è gennaio e va accettato tutto – persino capito, e in parte amato:
Stamattina l’inverno ha tentato di regalarci la neve: alcuni fiocchi stanchi e dubbiosi, soltanto un’idea di neve, e poi il nulla, il nulla del cielo incolore. È rimasto lo sguardo gelido e intransigente di questo mese cupo, e l’inspiegabile bellezza degli alberi spogli.
È inconsueto, lo so, amare gli alberi in queste condizioni, gli alberi fragili e soli e circondati da tanta indifferenza; ma io ne colgo – non so come – lo stupore assorto, la profonda intelligenza, la misteriosa forza che a tutto sa resistere.
Non si dissolve mai, la vita, ma sempre ricomincia. E l’inverno questo ci racconta.
La bellezza di novembre si compone di umori contrastanti e di premesse. Novembre, infatti, è l’autunno profondo, l’autunno che ha raggiunto la sua massima intensità cromatica e che però, nello stesso tempo, prelude all’inverno. A novembre convivono le calde, appassionate sfumature autunnali insieme ai primi toni freddi dell’inverno, che si rivelano in certi alberi quasi spogli e in alcuni toni cupi e smorzati, velati di grigio scuro. Il risultato è sorprendente, talvolta persino disturbante, perché unisce umori in apparenza inconciliabili: esibizionismo sfrenato e delicata modestia.
Sono tornata al Parco Amendola nord, rinominato Bonvi Parken, per non lasciarmi sfuggire la magia delle sue grandi foglie colorate. Dalla fine di ottobre qualcosa è mutato, ma la bellezza è rimasta intatta:
Sono poi passata lungo il Parco Amendola sud, che non amo molto, ma che a novembre mi attira un po’ perché regala alcuni angoli suggestivi, macchiati di arancio e di rosso:
A ottobre ho scritto in alcuni commenti che sarei tornata qui a novembre. Ho mantenuto la promessa: stamattina ho preso al volo l’autobus 5 per raggiungere il Parco dei Caduti della Fanfara Olandese, più comunemente noto come parco di via D’Avia, là dove la città improvvisamente sfuma per lasciare spazio alla campagna.
Lo scorso ottobre ero stata colpita da un bel viale di questo parco. Allora era ancora molto luminoso e verde, mentre adesso i toni sono mutati e si respira l’atmosfera novembrina, fatta di cielo irrequieto e sfumature di colori intensi. Ecco il lungo viale:
A novembre i parchi non sono mai affollati, ma sprofondano in un’affascinante zona grigia fatta di solitudine e di mistero. Questa mattina ho incontrato pochissime persone, qualche coraggioso amante del silenzio e del freddo autunnale.
Fuori dal parco, in via Don Zeno Saltini, sono stata accolta dalla meraviglia del giallo e dell’arancione:
Mi sono spinta oltre, verso la campagna. Ma questa zona è abbastanza squallida, almeno per i miei gusti. Il piccolo canale è maleodorante e pieno di nutrie che escono allegramente sui campi. Ho preferito girare i tacchi e tagliare la corda subito, per dirla in maniera raffinata. 😆