Ho lasciato trascorrere il tempo, ho lasciato che agosto percorresse da solo parte della sua strada. E lo so che un blog abbandonato, sia pure per poco, perde fascino e lettori; ma una breve pausa estiva è necessaria, se non altro per ricominciare con entusiasmo.
Si riparte. E sarà bello assistere al declino dell’estate, al volgere delle stagioni, al tempo che non vuole saperne di fermarsi.
Durante l’estate è inevitabile, mi succede ogni anno, si ripete sempre come se fosse la prima volta: mi lascio andare al flusso disordinato dei ricordi, alle memorie che tornano scomposte come piccoli frammenti, lievi pennellate dai colori sbiaditi e forse per questo affascinanti.
Tornano le estati d’un tempo lontano, più semplici rispetto a quelle di oggi. Ad agosto le città si svuotavano e non è uno scherzo. Adesso questo non succede più, perché si tende a partire in vari periodi dell’anno e le ferie sono mediamente più brevi. Per dirne una, ieri mattina il centro storico di Modena era pieno come a ottobre, mentre negli anni Ottanta e Novanta, ad agosto, le città erano quasi deserte. A quell’epoca, la mania dei viaggi esotici era appannaggio di un ristretto numero di cittadini, e la maggior parte delle persone era felicissima di trascorrere almeno tre settimane in luoghi non troppo lontani da casa, magari nella solita pensione in riva al mare o nella dimora di famiglia in montagna o in collina, dove quasi sempre arrivava qualche parente in visita.
Non c’erano ancora infinite agenzie di viaggio con (terribili) proposte di viaggi low cost e last minute, e nessuno desiderava passare cinque, striminziti giorni in Madagascar o una settimana a Santo Domingo. Non c’erano neppure i tanti B&B che adesso affollano ogni remoto angolo della nostra Penisola, compresa Rocca Cannuccia. Ai miei tempi le alternative erano chiare e poche: vacanze in appartamento o in albergo o in grande casa di famiglia, spesso a pochi chilometri dalla città. Fine.
La mia impressione, del tutto soggettiva, è che si trattasse di vere vacanze, autentiche rotture rispetto alla solita routine, perché in genere avvenivano soltanto una volta l’anno ed erano lunghe, in qualche caso lunghissime, a differenza delle vacanze di oggi, che spesso sono soltanto un mordi e fuggi forsennato o brevi parentesi. Riconosco, però, che le ferie vecchio stile avevano un grave limite: per i pochi costretti a rimanere in città, agosto doveva essere tremendo, con i negozi in gran parte chiusi e quasi nessun servizio funzionante.
Talvolta vorrei tornare indietro, brevemente, in maniera fugace e quasi di soppiatto, per trovarmi di nuovo a quel tempo, quando agosto significava abbandonare tutto e tutti, salutare le amiche e gli amici e darsi appuntamento alla fine del mese o a settembre. Non c’erano i cellulari o non erano ancora molto diffusi, le interurbane costavano parecchio e non comunicavamo gratis via whatsapp, per cui le vacanze erano davvero una pausa, un lungo intervallo spezzato soltanto dall’invio delle cartoline.
Ma questo distacco era positivo, perché tornare a casa dopo le vacanze significava impegnarsi a riannodare i fili interrotti delle nostre amicizie. Ritrovarsi dopo settimane di silenzio era sempre molto emozionante, quasi un avvenimento e un rito, ed era anche un’occasione per trascorrere lunghi pomeriggi a raccontare ciò che avevamo fatto e a guardare le poche fotografie che avevamo scattato durante le ferie, felici di essere nuovamente insieme.
Essere sempre connessi è piacevole e comporta molti vantaggi, altrimenti non perderei tempo a scrivere qui. Ma le pause, gli intermezzi e le comunicazioni lente di qualche decennio fa ragalavano emozioni ormai sepolte per sempre.
Ieri il sole è tramontato alle 20 e 36 e, in circa mezz’ora, l’ombra scura della notte è calata su di noi, come un abbraccio silenzioso dopo la giornata afosa. Di agosto amo questo, la luce che comincia a indebolirsi adagio e a cedere minuti preziosi alla sera, ormai più forte e appagata – la furia di luglio si è spenta.
(La torre bianca in lontananza, nell’ultima foto, è la Ghirlandina, in centro storico)
Viale Muratori questa mattina. L’ombra lieve dell’autunno è comparsa furtiva, un’ora di pioggia e il vento a passeggio lungo le strade a rammentarci ciò che sarà. Un’ora di respiro e l’acqua sulla pelle, le gocce frenetiche sugli alberi e l’ombrello aperto, quasi un sogno. Poi l’estate è tornata fiera e audace, perché agosto è soltanto suo. Ma quell’intermezzo, quel rapido passaggio, che emozione.
Cammina silenziosa, la primavera, cammina verso l’estate – e i pomeriggi, i pomeriggi sono estenuanti, il nostro tramonto. Si rincorrono emozioni, frammenti di vitalità intensa, chiudere la porta di casa, afferrare i sogni – quelli sfregiati dagli anni.
Le sere erano interminabili, il giardino ascoltava – erano i nostri discorsi -, il giardino ascoltava e taceva. Ma io lo so che torneremo sotto le stelle, e sarà una notte d’agosto – come se il tempo avesse deciso di oltrepassare quella curva.
Ricordo che, quand’ero ragazzina, nelle bellissime serate di agosto mi capitava spesso di mangiare all’aperto. Avevamo un giardino grande nella casa in appennino, e così, in poco tempo, riuscivamo ad apparecchiare un tavolo sotto le stelle. Avveniva tutto in famiglia e perciò in maniera semplice, senza cerimonie.
Per me, che trascorrevo le vacanze vivendo il più possibile in giardino, e che consideravo la casa alla stregua di un albergo da cui allontanarmi prima possibile, cenare all’aperto, mentre il cielo si oscurava avvinto dalla sera, era una gioia indescrivibile, ed era un preludio per successive delizie: mi sentivo libera e pronta per altri divertimenti, pronta per una notte di danze sotto la luna e di chiacchiere spensierate – quante parole ho consumato in quei giorni lontani, io che adesso resto muta per ore intere. Era l’incontenibile energia della prima giovinezza, una vitalità che travolgeva ogni cosa, prepotente, inarrestabile, quasi folle.
Era un altro agosto, era un altro tempo, ero un’altra persona.
Agosto prosegue il suo cammino adagio, come se non volesse terminare, come se fosse eterno. Il cielo resta opaco, quasi non avesse senso. Si attende un mutamento, l’irrompere di nuvole scure e di pioggia – almeno un lungo, lunghissimo giorno di pioggia per spezzare la sfrontata sicurezza dell’estate.
Lo so, la pioggia non è mai indolore: certe giornate cupe possono spalancare abissi di malinconia, e indurci al silenzio o alla rassegnazione. Però la strada – la nostra strada – è fatta anche di pioggia, di stagioni che scorrono, di estati che finalmente svaniscono; e, quando l’estate si sfalda, si comincia a respirare e a stupirsi di fronte a nuovi colori.
Come ho già scritto altre volte, quando, durante l’infanzia e l’adolescenza, trascorrevo il mese di agosto nella casa in appennino, io e le mie cugine ne inventavamo di cotte e di crude pur di sollazzarci.
All’epoca io ero dotata di molta fantasia, tanto che una volta, mentre me ne stavo seduta a guardare le mie cugine che giocavano a tennis, mi venne l’idea di fare la radiocronaca della partita: cominciai a fingere di essere una giornalista sportiva e iniziai a commentare a modo mio – in un modo molto particolare – ciò che vedevo. Il risultato fu davvero esilarante, con le mie cugine che non smettevano di ridere sentendo ciò che inventavo. In sintesi, le descrivevo come due campionesse famose nel mondo intero per il loro look stravagante e certi vezzi, oltre che per la tecnica di gioco. Ripensandoci ora, mi stupisce il fatto che, durante questa recita, non mi fermavo: parlavo, parlavo e parlavo in continuazione senza alcuna incertezza, come se tirassi fuori da un cilindro magico ogni parola che pronunciavo. E questo gioco piacque così tanto che, durante altre partite, le mie cugine mi obbligarono a replicarlo.
Ricordo poi che un giorno, dopo ore di corse e trastulli in giardino, eravamo particolarmente annoiate. Era il tardo pomeriggio e ormai disperavamo di poter arrivare all’ora di cena facendo qualcosa di stimolante; ma d’improvviso arrivò mio nonno che ci disse di voler provare un’automobile. Il fatto era questo: mio nonno voleva acquistare una macchina e, proprio in quel momento, stava per fare un lungo giro di prova su un’auto ferma sulla strada, con un individuo dentro che doveva guidarla per mostrarne tutte le presunte qualità. Per noi fu come trovare un’oasi nel deserto: immediatamente seguimmo mio nonno, che in verità ne avrebbe fatto volentieri a meno, per provare la suddetta automobile. Ci trovavamo, per così dire, in tenuta da giardino, nel senso che non indossavamo i nostri abiti migliori ed eravamo anche un po’ spettinate. Insomma, non avevamo un look adeguato a un lungo giro in macchina con uno sconosciuto. Ma non ce ne curammo: corremmo in strada come tre indemoniate, salimmo in macchina sul sedile posteriore e, tutte allegre, partimmo per il giro di prova fingendoci interessate all’auto, della quale in realtà c’importava meno di nulla. Però durante il viaggio, per darci un contegno, cioè per non sembrare tre scellerate in cerca di una gita gratis, ogni tanto esprimevamo un (ehm) preziosissimo parere tecnico sull’auto, sulla sua perfetta stabilità durante le curve ( sic!) e sul bellissimo rumore del motore (ancora sic!). Ebbene, quel viaggio di prova fu molto divertente perché, al contrario delle nostre aspettative, fu lungo, tanto che tornammo a casa dopo le venti, felicissime di aver scroccato una bella gita. Poi mio nonno non acquistò l’auto, ma intanto la gita era stata fatta.
A quell’epoca, nel mese di agosto, l’ultima cosa che avremmo voluto vedere era la pioggia. Ma in montagna, prima o poi, anche solo per un giorno la pioggia arriva. E così, proprio in un pomeriggio malinconico e piovoso, mentre eravamo inquiete alla prospettiva di dover restare in casa, la mia cugina maggiore ebbe un’iniziativa: filò in cantina e prese un’orrida coperta, vecchia e persino un po’ bucata, che mio nonno aveva intenzione di gettare via. Con questa coperta color melanzana e tre bastoni corremmo in giardino e lì, su uno dei due prati in cui c’erano cipressi e piccoli abeti, piantammo i bastoni e creammo una specie di tenda. Sedute sul prato bagnato sotto la tenda, cioè sotto l’orrida coperta vecchia destinata alla spazzatura, ci sembrò di rivivere: la pioggia non era più una nemica ma un’occasione per divertirci. Tralascio di descrivere lo stato dei nostri abiti dopo questa incauta avventura, visto che si può immaginare con facilità. Però fummo molto soddisfatte perché, nonostante il grigio e la pioggia, eravamo riuscite a starcene per un po’ all’aperto.
Fermo il cielo bianco – asfittico, irresoluto, stanco. Stremati i muri delle case vuote, chiuse, in attesa. Stremati i campi, povere anime indifese al sole; immobili i monti, taciturni e quasi felici, ubriachi di luce, sazi di agosto.
Talvolta, quando in città il pomeriggio prosegue con lentezza esasperante, a invaderci è soltanto una quiete senza colore, senza alcun tono degno di nota. Ma è pur sempre qualcosa.
Essendo terminato luglio, ricomincio a scrivere con gioia nonostante il caldo. Non che agosto ci stia riservando un clima gradevole; tuttavia, questo è il mese che precede settembre e ciò significa che ci stiamo lentamente avvicinando al declino dell’estate, cioè del forno. Perché di forno si tratta.
Ricordo le mattine, i pomeriggi e le sere d’agosto in montagna e in un passato ormai remoto. All’epoca, era difficile riempire le giornate perché sembravano infinite, un flusso inarrestabile di ore che si susseguivano adagio, così adagio che, talvolta, avevo quasi l’impressione che il tempo si fermasse.
È ancora nitido nella mia mente il ricordo di un pomeriggio di agosto. Avevamo pranzato e, insieme alle mie cugine, eravamo rimaste in cucina a parlare. A un certo punto, credendo che fosse trascorso parecchio tempo perché la conversazione era stata molto lunga, guardai l’orologio posto su una mensola e vidi che erano le 13:50. Rimasi di stucco, quasi non volendo credere ai miei occhi: perché il tempo era trascorso con tanta, esasperante lentezza? Avevamo ancora un intero pomeriggio da inventare. Perché sì, era proprio questione d’inventarselo, il pomeriggio: occorreva trovare passatempi, divertirsi e cercare di non sprecare tutto quel sole, quella luce, quell’impetuoso desiderio di vivere – lo sconcertante fiume in piena che è l’adolescenza.
Per fortuna, arriva un’età in cui il fiume non è più in piena, ma scorre placido e tranquillo, saggio e disincantato. E allora anche agosto non è più lo stesso, ma assume un volto differente: agosto è l’estate matura, al culmine del suo splendore e perciò vicina ai primi, lievissimi segni di decadenza. Segni impercettibili, che sfuggono ai più e che possono essere catturati soltanto dagli sguardi più intensi, dagli occhi infaticabili di chi sa osservare in profondità.