Desideri di primavera

Uh, come mi sento frizzantina! Sono consumata dal desiderio di uscire, passeggiare e fare la monella, come se avessi ancora quindici anni. È la primavera, lo so: alzarsi col sole la mattina, i pomeriggi che si allungano, le prime fioriture, i pensieri che vagano lontano. Anche sotto casa mia il paesaggio sta cambiando:

E che sforzo fermarsi, ricomporsi, comportarsi da persona adulta, fingere di non vedere e di non ricordare. Ma io le rievoco tutte, quelle primavere, perché sono rimaste dentro di me, a comporre il mosaico dei miei anni, del mio cammino – e nessuno mai potrà strapparmele.

Voglio la primavera colorata d’azzurro e di viola, quella che non sai mai se è un regalo o una dannazione, se ti abbraccerà col suo calore o ti respingerà d’improvviso – a lasciarti precipitare nella notte dei pensieri cupi. Voglio la primavera dei pomeriggi nel verde, a raccontare storie e a parlare di nulla, a intrecciare sogni e a ridere di niente, come se il domani dovesse recare chissà quale consolazione – e tu e io, e i nostri capelli neri al vento e quella passione che ci ha devastati.

Ma poi no, voglio il presente. Voglio la primavera dei sentimenti quieti, del disincanto, voglio la primavera a tinte pastello – e la calma che segue la tempesta. Voglio proseguire lungo un sentiero di alberi e di ombre, senza fantasmi a corrermi accanto.

Una Vespa che sa di primavera

L’ho scattata al volo stasera, lungo viale Buon Pastore. Stava calando il buio e l’immagine non è di grande qualità; ma la bellezza e il colore insolito di questa Vespa sono evidenti:

Non credo di aver mai visto prima d’ora una Vespa tutta rosa. E mi colpisce perché evoca la primavera, il suo significato profondo, e il desiderio di correre al vento incontro all’ignoto.

Io, molti anni fa, ne guidavo una tutta bianca. Erano giorni di sogni e di giochi all’aria aperta, con l’azzurro del cielo nel cuore.

Il veccho telefono fisso

Chi se lo ricorda? Io sì, l’ammetto. Per un ventenne si tratta di un oggetto quasi misterioso o di una specie di reperto archeologico, da guardare con curiosità e forse un pizzico di compatimento. Per me e per molte altre persone, invece, appartiene all’universo delle memorie e rievoca immagini legate all’infanzia – emozioni, gioie e sofferenze.

Quel telefono dell’ormai mitica SIP era pesante e abbastanza grosso da farsi notare. Nelle case, la sua esistenza si svolgeva soprattutto nei corridoi e lungo gli ingressi, spazi purtroppo quasi inesistenti nelle abitazioni attuali. Proprio lì, in quelle aree di passaggio, il telefono grigio con grossa rotella incorporata assumeva un ruolo fondamentale nella nostra vita quotidiana: era l’unico mezzo per comunicare a voce con le persone lontane. Ben presto, a casa mia fu sostituito con un telefono fisso a tasti, che salutammo come segno di grande progresso nel campo delle comunicazioni.

Ma con un telefono fisso in corridoio non sempre ci sentivamo liberi e libere di parlare, perché chi era in casa con noi poteva ascoltare tutto. Così si poneva il problema di trovare soluzioni “creative” per nascondere alcune cose ai nostri genitori – appuntamenti, flirt, piccoli, innocui segreti considerati di notevolissima importanza. A soccorrerci erano spesso le cabine telefoniche, comodissime in un’epoca in cui non erano diffusi i cellulari. Lì potevamo telefonare e dire tutto ciò che avevamo in mente, senza che i nostri familiari ci ascoltassero.

Quando lasciai via Savani e mi trasferii ad abitare in centro storico, la nuova casa era talmente grande che un solo telefono fisso non poteva bastare; così, ebbi il mio bel telefono in camera, che mi garantiva un certo grado di privacy. Poi arrivarono in fretta i cellulari e il modo di comunicare cambiò per sempre, segnando una brusca rottura con il passato, un autentico punto di non ritorno.

Ogni tanto, quando ripenso all’infanzia, mi sovviene il ricordo del telefono grigio con la rotella e mi sembra di appartenere davvero a un altro mondo, quasi a un’epoca remota. Eppure mi piace sentirmi un po’ obsoleta, perché ciò implica una lieve forma di distacco rispetto al presente e al mondo, un piacevole senso di non appartenenza che, a volte, mi regala pace e armonia in un modo che non so neppure spiegare.

Marzo inizia così

Marzo inizia così, l’inverno gelido e la neve a tenermi compagnia. Fra ottobre e la metà di febbraio ho viaggiato molto, rispettando gli orari dei treni e degli autobus che hanno reso possibili i miei spostamenti . A volte ho corso come una trottola impazzita, altre volte i taxi mi hanno salvata dalla stanchezza – di mattina presto e di sera tardi, col buio e il vuoto delle strade a farmi desiderare di tornare a casa in fretta. E, in questa girandola di spostamenti, affanni e coincidenze da rispettare, non ho potuto vivere l’autunno e l’inverno, periodi che richiedono presenza, attenzione, calma e lunghe ore da trascorrere in casa.

Ma, adesso che quell’intermezzo si è concluso, la stagione fredda sembra voler prolungare la sua presenza – quasi un regalo, un minuscolo dono per risarcirmi di ciò che ho perduto. Eppure avverto il desiderio di un mutamento, credo che la nuova stagione abbia il diritto di arrivare. La desidero e la temo, in realtà, perché il cambiamento è sempre un’incognita, uno strano groviglio di desideri e timori, di attese e delusioni, di momenti sereni e di battute d’arresto.

Però la voglio, la primavera; la voglio ingenua, frizzante, immatura e piena d’energia. Voglio rinascere anch’io, in fondo, e le desidero tutte davvero quelle tinte delicate, meravigliose, come di vita al suo principio: il verde, il lilla, il rosa e il celeste.

Tu sai di cosa parlo.

Ricomincio

Ricomincio a scrivere in un freddissimo giorno di pioggia, mentre l’inverno infuria dopo alcune giornate miti. Del resto, un pomeriggio piovoso è l’ideale per scrivere – il cielo malinconico, il piacere di restare in casa avvolta dai pensieri.

Sono stati mesi molto intensi, per me, ricchi di eventi, di decisioni, di viaggi e di nuove relazioni. Una parentesi che si è conclusa da poco e che mi è stata utile sotto molti punti di vista. Ma, durante questo periodo così particolare, ho trascurato il mio blog a causa del poco tempo a disposizione e d’inevitabili momenti di stanchezza.

Adesso sono a casa e lascio che la domenica compia il suo corso, senza farmene intimorire. Il vento, fuori, è un urlo straziante, un furore violento; ma non m’importa, nulla m’interessa se non avvertire il trascorrere della giornata, sentirlo nel cuore, assecondarne le tinte scure. E io l’amo. Amo l’inverno come non mi era mai successo prima d’ora, come se si fosse svelato interamente, come se avesse gettato la sua maschera al momento giusto – sono io l’inverno, di gelo vestita.

Ricomincio a scrivere e ricomincio la mia vita.

Fermate d’autobus

Spesso, quando mi trovo sull’autobus e guardo fuori, mi colpiscono le fermate che non ho mai frequentato, che non appartengono alla mia realtà quotidiana, neppure a quella remota – stralci d’infanzia, piccoli viaggi urbani, tragitti per non so dove.

E penso che vorrei, talvolta, vivere qualcuno di questi luoghi d’attesa, percepirne l’atmosfera, perché ce n’è sempre una, una c’è sempre se la sai afferrare – e, in quel momento, afferri te stessa.

Quando ti trovi ad aspettare, cammini sempre incontro all’ignoto. T’illudi di avere una destinazione e basta, un punto d’arrivo che sia una conclusione, una certezza; ma la realtà è un’altra, sfuggente, fatta di volti nuovi, d’improvvise armonie o dissonanze. E poi non sai se arriverai a destinazione, se il viaggio sarà più lungo del consueto, se un imprevisto spezzerà la monotonia dell’attesa.

Ma quella fermata, quel punto qualsiasi voluto dagli uomini, dà forma al mondo e alle giornate, crea la realtà e la sostiene, rende possibile il viaggio, i pensieri, le illusioni, le aspettative.

Le fermate d’autobus mi piacciono d’autunno, nelle giornate incolori, quando le foglie non smettono di cadere e l’attesa diventa un mistero – solenne, forse senza ritorno.

Riflessioni d’inverno

Questa mattina, mentre camminavo lungo viale Veneto per tornare a casa, sono stata folgorata dalla bellezza dell’inverno. Nonostante i colori freddi, gli alberi scuri e il cielo tetro, ho avvertito un calore e un coinvolgimento emotivo nuovi. In un certo senso, è stato come scoprire questa stagione per la prima volta, sentirne tutto il fascino oscuro e non temerlo. Devo essere cambiata molto, profondamente.

Credo che ciascuno di noi dovrebbe dedicare un giorno intero all’inverno, senza pensare ad altro, senza perdersi in altro, lasciandosi ammaliare dal cielo livido, minaccioso, e poi scialbo, monotono, spento. E capirne il senso, tutto il suo valore, il mistero racchiuso nella sua lunga inquietudine.

Tutto è compiuto. Ciò che non si è realizzato non poteva realizzarsi, ciò che è finito doveva terminare. E la notte non è mai stata così bella.

Voglio l’inverno

Voglio l’inverno vero, l’inverno cupo e senza incertezze – chiudersi dentro, il freddo intollerabile e la lunga, lunghissima attesa. Voglio l’inverno e i giorni scuri, la meraviglia della nebbia al mattino – e uscire quando ancora fuori è notte e tutti sembrano dormire. Voglio l’inverno delle passeggiate solitarie, e le strade strette e le porte chiuse e nessuno alle finestre – e poi tornare a casa in fretta e pensare.

Voglio l’inverno severo ed esigente, quello dei colori freddi e del ghiaccio sul cuore.

Buon anno, buon 2023

L’anno nuovo

Indovinami, indovino,
tu che leggi nel destino:
l’anno nuovo come sarà?
Bello, brutto o metà e metà?

Trovo stampato nei miei libroni
che avrà di certo quattro stagioni,
dodici mesi, ciascuno al suo posto,
un carnevale e un ferragosto,
e il giorno dopo il lunedì
sarà sempre un martedì.

Di più per ora scritto non trovo
nel destino dell’anno nuovo:
per il resto anche quest’anno
sarà come gli uomini lo faranno.

(di Gianni Rodari)

Buon anno a chi passerà su questo blog. Che il 2023 sia ricco di possibilità e di tante, belle sorprese.