Chiacchiere di fine novembre

Quando dicembre sta per arrivare, penso sempre al nuovo “vestito” del blog. Fra pochi giorni dovrò cambiare immagini, intestazione e sfondo, e ciò mi diverte: talvolta mi sento come una bimba intenta a colorare un album da disegno, mentre fuori piove o il cielo è troppo scuro per fare altro. Massì, in fondo questo blog è un modo per decorare certe giornate cupe o monotone o nonsisabenecosa.

Intanto ho già sbrigato con soddisfazione la faccenda dell’albero di Natale: è lì, finito, pronto, fisso, immobile a sostenere la sua parte. Del resto, ciascuno di noi ne recita una, di parte; e anche l’albero natalizio s’impegna nel suo ruolo, povero caro. A lui spetta il compito di ricordarci che stiamo per immergerci nelle feste più lunghe dell’anno, feste di cui magari c’interessa poco o che non suscitano in noi alcun entusiasmo, ma che dobbiamo accettare, sopportare, sforzarci di gradire. A pensarci bene, tutti questi colori, queste luci, i pacchetti decorati e il rosso, il verde, l’oro, l’argento ci aiutano ad accogliere l’inverno, ad abbracciarlo, a dargli il benvenuto. Ed è proprio il caso di darglielo, questo benvenuto, visto che oggi il freddo è assassino. Però ne sono contenta – del freddo, dico -, perché con queste temperature io cammino, cammino, cammino, mi muovo parecchio e chimifermapiù?

Che finisca novembre mi dispiace, che finisca l’autunno mi dispiace, però mi adatto o almeno ci provo. Tanto la vita è tutta una questione di adattamento.

Intanto buon fine settimana, buon freddo, buon tutto.

Nebbia a novembre

Di mattina e da due giorni, la nebbia invade la città. Una nebbia fitta, spessa, che nasconde case e persone. Dalla portafinestra della cucina, è un vero spettacolo: una fitta coltre bianca dalla quale emergono soltanto gli alberi lungo la strada. Gli alberi con le loro foglie dorate e marroni, gli alberi che non cedono, gli alberi che ancora si aggrappano alla vita.

Quando avrà termine?

Questa mattina, in un negozio, ho visto una tristissima gonna marroncina in finto camoscio e con lunghe frange, stile Calamity-Jane-in-città, abbinata a un orrido maglione a righe multicolori gialle, rosse, viola, verdi e altro ancora. A questo punto, sono molte le domande che una persona mentalmente sana si pone: cosa abbiamo fatto di male? Si tratta di una prova, di un esperimento? E se sì, che finalità ha? Tutto questo avrà un termine? E se sì, quando?

L’amante senza fissa dimora

Trama

Novembre. Mr. Silvera, guida turistica che accompagna un gruppo di persone a Venezia, incontra una ricca antiquaria romana in viaggio per lavoro. Lui è sfuggente ed enigmatico, lei è sposata, colta, curiosa e piena di vita. Fra i due nasce una relazione, destinata a concludersi in fretta a causa di uno sconvolgente segreto di Mr. Silvera.

 

Commento

L’amante senza fissa dimora (1986) è un’opera di Carlo Fruttero e Franco Lucentini. Non ci si lasci fuorviare dal titolo: non si tratta di un romanzo rosa, perché la vicenda sentimentale è soltanto lo sfondo per un’affascinante narrazione che si dipana a più livelli. Al centro della storia, infatti, c’è un mistero, un’antica leggenda che il lettore può scoprire soltanto alla fine, ma sulla scena si muovono e s’incontrano vari personaggi, ben delineati grazie a un’ottima capacità di indagine psicologica e sociologica, spesso accompagnata da un tocco di sapiente ironia. E sono personaggi che, tutti insieme, formano un interessante campionario di varia umanità, come, ad esempio, i viaggiatori scortati da Mr. Silvera:

In ogni comitiva c’è sempre un’adolescente che s’innamora di Mr. Silvera, sempre un paio di anziane signorine d’inesauribile energia, sempre una coppia di coniugi litigiosi, sempre un’ipocondriaca, sempre un pignolo saccente e scontento di tutto, sempre un ficcanaso pettegolo. È come viaggiare con un campionario, pensa Mr. Silvera (p.16).

E poi c’è Venezia, anch’essa protagonista. Venezia a novembre – malinconica, buia, decadente – è la condizione stessa di possibilità di una trama interamente giocata sul mistero, sull’elusività, sull’incertezza:

Strada facendo avevo scoperto una Venezia ovvia eppure a me […]del tutto ignota. Una Venezia di frequentissimi anfratti, portichetti, angoletti oscuri, minuscoli campielli deserti, calli quasi segrete, di cui sarebbe stato delittuoso non approfittare […] (p.117).

 

Perché leggere questo romanzo:

– per immergersi nella raffinata trama di una scrittura elegante, caratterizzata da uno stile sontuoso ma non barocco, e da una non comune ricchezza lessicale. Perché è bello volare alto ed evitare di appiattirsi nella palude della mediocrità, specialmente in un’epoca come la nostra, in cui si assiste spesso a un’eccessiva semplificazione della lingua scritta.

– per la sottile analisi dei tanti personaggi, attuata attraverso gesti, rapide occhiate, frasi, inaspettate suggestioni, ossia attraverso quegli effetti indiretti che soltanto i bravi scrittori e le brave scrittrici sanno creare.

– per l’atmosfera decadente, romantica e poetica di Venezia, colta in un malinconico mese d’autunno e catturata nei suoi angoli più remoti, lungo le vie meno frequentate, davanti ai suoi tanti portoni sbreccati.

– perché è ambientato negli anni Ottanta del secolo scorso, ossia nel passato prossimo, e descrive con garbata ironia un fenomeno  come quello dei viaggi organizzati low cost, già diffuso in quel periodo e ormai diventato parte integrante del nostro attuale stile di vita.

– per la profonda consistenza di tante riflessioni, sparse nel romanzo come gemme preziose da cogliere senza indugio. Come quella della protagonista che, a proposito di se stessa, ammette: mi avvilisce l’idea – ma non è propriamente un’idea, è come una cicatrice d’idea – di aver malamente tradito me stessa. Né mi consola pensare che non soltanto la mia, ma qualsiasi vita è così: un premere formicolante, incalcolabile, che poi, messo alle strette, si risolve in rivoletti incolori (p.131).

Sono giorni

Mentre il tempo passa, i colori di novembre si dispiegano in tutta la loro stupefacente bellezza: gli alberi sono vestiti di borgogna e di giallo, in contrasto con l’atmosfera spenta, sbiadita, evanescente che domina sulla città. Sono i giorni autunnali più intensi e misteriosi, questi; sono giorni che evocano profondità inconsuete e improvvisi abissi di solitudine. Ma sono anche i giorni dei ricordi, e degli scorci tranquilli, e della serenità che emerge orgogliosa dalle macerie; questi sono i giorni in cui finalmente chiudiamo innumerevoli porte, per trattenere soltanto l’essenziale.

Autunno, fango e passeggiate

Ore 17:15. Il buio è già arrivato e il freddo è quello pungente, tipicamente invernale nonostante sia novembre. Non amo troppo la domenica, perché m’infonde sempre un persistente senso di malinconia; però preferisco le domeniche autunnali e invernali a quelle delle belle stagioni, perché, nei periodi freddi, si può gioire dell’intimità domestica: avere tempo per stare in casa e dedicarsi ai propri hobby, mentre fuori è freddo e l’oscurità avanza in fretta, è impagabile.

Del week-end amo il sabato perché, con i negozi tutti aperti e la necessità di svolgere varie commissioni, conserva la vivacità degli altri giorni della settimana, ma, a differenza di essi, offre l’occasione per fare cose nuove o diverse dal solito. Ieri mattina ho visitato, in centro storico, la piccola mostra dedicata ad alberi e oggetti di Natale. Nel primo pomeriggio, invece, ho fatto una lunga passeggiata nel quartiere in cui risiedo: l’atmosfera era troppo novembrina per lasciarsela scappare, e così ho zampettato allegramente lungo il viale, per poi tornare a casa attraverso una specie di sentiero-parchetto che unisce l’orrido Viale Don Minzoni a Via Riva del Garda. Tale sentiero-parchetto è per me una novità: durante la mia infanzia, infatti, non esisteva, perché in quella zona c’era un vivaio e altre cose sulle quali non ho mai voluto indagare. Poi sono stata assente da questo quartiere per moltissimi anni, tanto da averlo quasi cancellato dai miei ricordi; ma, dopo essere tornata qui inaspettatamente, ho scoperto che è stato fatto questo parchetto strano, e così ne approfitto quando voglio camminare e starmene da sola.

In definitiva, faccio il giro dell’oca: percorro Viale Buon Pastore fino all’incrocio con il detestabile Viale Don Minzoni; qui svolto a sinistra e, dopo pochi metri, giro ancora a sinistra lungo una stradina che porta al sentiero. Dapprima c’è un piccolo largo con due altalene e qualche panchina; poi il sentiero si restringe e prosegue in mezzo a una fila di case e casette ristrutturate. Il bello della faccenda è che sembra di trovarsi in campagna, e questa sensazione è accentuata durante l’autunno, quando il terreno è fangoso e le foglie cadono a sazietà. I passanti sono rari, soprattutto in questa stagione, e questo suscita l’impressione di trovarsi in un altro mondo. Quando il sentiero sbuca in Via Riva del Garda, è ormai chiaro che non sono in un altro mondo, ma in questo. E allora svolto ancora a sinistra, percorro la strada e poi giro a destra entrando in Via Savani, dove inevitabilmente mi assalgono parecchi ricordi legati all’infanzia e alla prima adolescenza. Da lì prosegue il solito tour: Via Pagliani, il parco, Via Peretti e Via Matilde di Canossa. Si torna a casa, invariabilmente.

Ieri ho fatto questo giro dell’oca per poi rientrare alle 16:30. Due ore dopo mi sono accorta che non avevo comprato una cosa importante per il pranzo della domenica. Così, nonostante la pioggia a dirotto, il buio e il gelo, sono uscita in fretta e sono tornata in  centro storico al mercato di Via Albinelli. In soli 35 minuti ho fatto tutto: andata e ritorno a piedi sotto la pioggia battente. E devo ringraziare l’autunno per l’energia che m’infonde. D’estate, col sole a picco sulla zucca e l’afa che non consente di respirare, non riuscirei a fare tanto.

D’altra parte sono un’ottima camminatrice, e neppure il maltempo riesce a fermarmi. E a voi piace camminare? Vi piace fare giri particolari, soltanto “vostri”?

Novembre

La pioviggine è talmente sottile da sembrare inconsistente, quasi fosse una percezione errata o un sogno o persino un fantasma; ed è l’essenza stessa di novembre, la sua meraviglia. E poi i colori: il giallo-ocra che sfuma nel nocciola intenso, la tenace persistenza del verde, il borgogna declinato in tutte le sue sfumature – rosso rosa pallido vivace stanco. Il fango marrone e grigio, i rari passanti in bicicletta, lo sfacelo delle foglie morte sui marciapiedi, le villette immerse nel silenzio, anni e anni di cancelli, di recinti, di strade sconnesse, di assenze.

Novembre è la sintesi, ieri e oggi in un abbraccio eterno, ciò che è stato e che continua a essere – e quelle curve, quelle svolte improvvise, quel restare appesi al niente.

L’autunno a novembre

Le dolci ambiguità di ottobre, un mese sempre in bilico fra dorato splendore e toni di grigio sfumato, a novembre scompaiono, per lasciare spazio alla dimensione più introversa dell’autunno, fatta di nebbie, di mattine tetre, di pioggia e di fango, ma anche di sprazzi di sole e d’inconsueta mitezza.

Novembre non può celare disagi, oscurità improvvise, lo sfacelo delle foglie e degli alberi, la tristezza dell’imbrunire. Novembre richiede uno sforzo, la capacità di guardarsi dentro, la disposizione a scoprire i colori anche sotto un cielo offuscato dalle lacrime. E i colori sono quelli delle foglie: il giallo intenso che illumina i pomeriggi più lugubri, il verde screziato di marrone e di rosso a comporre capolavori di ardimento.

Di moda e cattivo gusto

Domenica mattina ho fatto una bella passeggiata autunnale, a coronamento del ponte del primo novembre. In centro storico mi sono soffermata a guardare le vetrine dei negozi di abbigliamento, soprattutto perché, negli ultimi tempi, è un genere di attività che ho evitato come la peste, e perciò ho voluto recuperare.

Ho già parlato, nei commenti a qualche vecchio post, del mio fastidio nei confronti della moda attuale, che considero orribile, un vero insulto al buon gusto e all’intelligenza delle donne. Non me ne voglia chi l’apprezza – ognuno ha i propri gusti, ci mancherebbe -, ma io non riesco a pensarla diversamente. E siccome la moda non nasce a caso, ma riflette i valori dell’epoca in cui si vive, osservarla significa apprendere qualcosa a proposito del disgraziato periodo storico in cui ci troviamo.

Torniamo a domenica mattina. Dopo aver osservato le vetrine di vari negozi e aver compreso cosa bolle in pentola, ho deciso di andarmi a “divertire” nello store di un noto brand che non cito.

All’inizio ho guardato alcuni presunti abiti lunghi a fiori. Dico presunti perché erano senza forma e quindi di difficile identificazione. D’altra parte, l’assenza di forma non è frutto di chissà quale estro o capacità artistica o bizzarra innovazione: no, no, non vi è nulla di creativo in un simile scempio. Tutto ciò rivela semplicemente il desiderio di guadagnare il più possibile, cosa attuabile soltanto attraverso l’impiego del minimo sforzo, ossia senza neppure impegnarsi a rispettare quelle cose ininfluenti che sono le taglie. Per non parlare poi delle stoffe: gli abiti suddetti erano di lucido e leggerissimo poliestere, un materiale senz’altro adatto per affrontare i rigidi inverni della Padania.

Ho poi proseguito per bearmi nell’osservare la cosiddetta maglieria, che dovrebbe servire per ripararci dal freddo e non per attirarlo. Da  anni, ormai, i maglioni sono spesso cartonati, anche quelli venduti nei negozi considerati di alto livello. Ebbene, domenica ho visto maglioni trasparenti come garze e creati con materiali che definirei autarchici soltanto per non infierire troppo; ho visto sedicenti maglioni mezzi lucidi  e così sintetici da sembrare prodotti con bottiglie di plastica malamente riciclate, maglioncini tristissimi destinati a diventare vecchi stracci subito dopo il primo uso, secondo un trend ormai decennale. Quando mi sono avvicinata per guardarli meglio, nel disperato tentativo di capire se fossero veri o frutto di un’allucinazione, sembravano quasi invocare pietà, del tipo: “Lo sappiamo che facciamo schifo, ma abbi compassione e passa oltre”. E che dire dei colori? Quest’anno sembra che il giallo ocra e il ruggine siano i must delle stagioni fredde, e allora ecco il tripudio di capi di vestiario ocra-zabaione accostati, con audace sprezzo del pericolo, all’arancione, utilissimi per fendere la nebbia nei giorni più cupi dell’anno.

Ho anche assistito con sgomento a un revival di forme, tessuti e colori della moda anni Settanta: malinconici cappottini color cammello con stoffe in apparenza sdrucite, come se qualcuno si fosse divertito a prenderle a unghiate; pelliccette con manto somigliante a capelli ricci devastati dalla nebbia padana (e chi li ha sa di cosa parlo); maniche a campana molto ampia, in modo che il freddo possa penetrare meglio, avvolgere i nostri corpi e farci provare l’imperdibile ebbrezza della polmonite.

Si apre poi il capitolo pantaloni. Nel mio giro di ricognizione dentro al simpatico negozio, ho visto delle cose di plastica che, a quanto ho potuto capire, dovrebbero essere dei pantacollant (argh!) in finta pelle, da abbinare a quegli oggetti comunemente denominati scarpe, che però assomigliano a scatoloni con zeppe altissime, roba che farebbe impallidire persino gli zatteroni di Frankestein.

A questo punto, qualsiasi persona crederebbe di aver raggiunto l’apice dell’orrore, l’apoteosi del terrificante. E invece no, perché quando si ritiene di aver toccato il fondo, ci si accorge che si può pure scavare e cadere ancora più a fondo. Così, davanti al mio sguardo, si sono palesati dei pantaloni con stampa animalier, cioè leopardati, un po’ lucidi e tutti aderenti, abbinati a un maglione color ruggine screziato di giallo. Si tratta del look da me battezzato galera-style, perché, data la sobria raffinatezza dell’insieme, indossandolo si rischia di essere subito scambiate per parenti dei Casamonica, e condotte quindi in galera senza neanche beneficiare di uno sconto di pena.

E qui mi fermo, altrimenti dovrei compilare un intero trattato. E a voi piace la moda attuale?