
Ieri, nel tardo pomeriggio, sono stata costretta a uscire per fare alcuni acquisti. Non amo perdere tempo nei negozi soprattutto perché ultimamente le tecniche di vendita, in alcuni esercizi commerciali, sono diventate molto aggressive e al limite della disonestà. Entri, chiedi una cosa e il venditore, con un sorriso fintissimo stampato sulla faccia, comincia a stordirti con inutili chiacchiere scandite molto rapidamente, utilizzando una serie di trucchetti retorici e di smorfie del volto utili a farti sentire pezzente se rifiuti di comprare ciò che non ti serve. In altri termini, l’imbonitore usa un copione fondato su alcuni principi di base della psicologia, banali ma spesso efficaci perché l’acquirente, trovandosi in un ambiente estraneo, è quasi sempre intimidito o almeno un po’ imbarazzato: di fronte alla recita studiata a tavolino dal venditore, il cliente è vittima dell’effetto sorpresa, che inevitabilmente lo intontisce; pertanto, se non è abbastanza scafato, si lascia incantare dal profluvio di parole approntato per l’occasione.
Ieri ho dovuto sorbirmi le chiacchiere di un tizio che voleva farmi acquistare mezzo negozio, mentre a me serviva soltanto un prodotto per i capelli. Peccato per lui: ha parlato a lungo, ha sorriso all’infinito dandomi persino del tu con fare assai amichevole (io, ovviamente, ho continuato a usare il lei), ha finto d’interessarsi alla mia persona chiedendomi nome e luogo di nascita (eh sì, gli importava parecchio!), ha voluto obbligarmi a provare sulla mano un gel profumato trascinandomi fisicamente, con una certa dose d’arroganza, verso un catino già pronto e pieno d’acqua, e ha perso pure tempo a massaggiarmi la mano (odio i massaggi). Lo scopo di tutto ciò era cercare di convincermi a comprare un gel doccia al costo di trenta euro, oltre a un disciplinante per capelli al prezzo di venti euro e ad altre amenità che non ricordo. Durante questa dura recita, accompagnata da tentativi di conoscere le mie abitudini nel campo degli acquisti di cosmetici et similia, ha persino cercato di fare qualche battuta ma, su tale fronte, è stato molto scarso e forse se ne è accorto, visto che ho riso poco. Alla fine della sceneggiata, ecco il risultato: ho comprato solo quello che mi serviva e per il quale ero entrata in negozio. Morale: ha faticato invano.
M’infastidisce il fatto che, negli ultimi anni, questa tipologia di commercianti e commessi si sia moltiplicata e imperversi senza pietà in ogni luogo. Persone spesso anche molto maleducate, che si arrabbiano se non ti pieghi alla loro volontà e che pretendono persino di venderti capi d’abbigliamento che non sono della tua taglia. Una volta – una fra le tante – mi capitò una stupida che mi presentò una giacca primaverile dicendomi che si trattava di una taglia unica. A parte il fatto che le giacche di taglia unica non esistono o non dovrebbero proprio esistere (ma al peggio non c’è mai fine, lo so), le feci notare che era troppo larga per me, circa due taglie in più rispetto alla mia; per tutta risposta, la tizia continuò a ripetere: “Sì, però è taglia unica”. Be’, dopo pochi mesi costei chiuse il negozio e cambiò lavoro. Chissà perché non mi meravigliai.
L’esperienza più assurda, quella che mai avrei pensato di poter vivere, è però legata a un negozio scarpe. Le scarpe che mi piacevano erano della mia misura ma, ugualmente, troppo larghe e lunghe. Il commento della commessa fu: “Sì, ma poi, portandole, si restr…”. E qui si fermò. Si fermò perché la stava sparando troppo grossa, in quanto non esistono al mondo scarpe che, una volta indossate e portate, abbiano la capacità di restringersi e accorciarsi. Ora, io comprendo tante cose: nella vita bisogna lavorare per mangiare, perciò bisogna vendere. Però non si può scendere tanto in basso, rivoltandosi in simili quantità di fango: a tutto c’è un limite. Esiste anche un concetto astratto ma assai carino che si chiama dignità: perché non servirsene ogni tanto?